Villa Ada Festival 2024 | Fat Freddy’s Drop
FAT FREDDY’S DROP, DUB E FUSION ABBRACCIANO ROMA
La band neozelandese protagonista a Villa Ada
Roma, 06 agosto 2024
Chiunque ha provato la gioia del cuore di ritrovare e riabbracciare un libro, un oggetto, un capo di abbigliamento, un amico o una vecchia abitudine riscoperta per caso, in una cassapanca impolverata, reale o metaforica. Di quelle che giacciono per anni nella soffitta o in cantina. È questa la sensazione che provo stasera mentre varco l’ingresso di Villa Ada.
Ora che ho sollevato il coperchio di questo baule, mi accorgo che non sarebbe stata una vera estate senza un concerto presso l’ex residenza romana dei i cari, vecchi e, soprattutto, simpaticamente coraggiosi Savoia.
Ritrovo la sensazione dei concerti senza la responsabilità di doverne scrivere. Niente anticipo di due ore sull’orario e cassa accrediti, nessuna caccia alla setlist e osservazione del pubblico, nemmeno la perlustrazione del palco alla ricerca di qualcosa meritevole di attenzione.
Anche perché al palco è impossibile arrivare. La penisola che si protende nel laghetto, luogo deputato allo svolgimento dei concerti è piena come raramente ho visto prima d’ora. Arrivo mentre è in corso il dj set di warm up. Dalla scarica elettrica che mi investe, e dalla piloerezione che ne deriva, intuisco che non sarà una serata come le altre. Quando la band neozelandese si presenta sul palco l’intuizione diventa certezza.
Sono in sette i Fat Freddy’s Drop; presentarli è complicato a causa dei loro nomi d’arte. Dallas Tamaira, aka Joe Dukie, voce e chitarra elettrica; Toby Laing, aka Tony Chang tromba; Joe Lindsay, aka Hopepa, trombone e tuba; Scott Towers, aka Chopper Reedz, sax; Killa ManRaro, chitarra elettrica; Chris Faiumu, aka DJ Fitchie, console, produzioni e sequenze; Iain Gordon, aka Dobie Blaze, tastiere.
Confermano quanto avevo letto dei loro live: sono mostri da palcoscenico, si muovono su di esso con la naturalezza propria di chi ha trovato il suo naturale habitat. E con loro ci muoviamo noi. I primi brani sono marcatamente reggae, sull’onda lunga del dj set precedente. Poi succedono cose, tante cose.
Ad esempio, succede che a un groove reggae faccia da contrappunto una ritmica funky della chitarra. La voce di Joe Dukie ha inconfondibili timbriche black e quella che ne viene fuori è una corrente alla quale non si resiste. «Vedo la gente in trance», direbbe qualcuno, mentre intorno a me i corpi che si muovono sincronicamente e armoniosamente nel flusso. È impossibile restarne impermeabili. Miscelano dub e rap, rendono il pubblico protagonista e primattore dello show e riescono a farlo perché sono loro i primi a divertirsi con noi.
Mi aspettavo un gran concerto, ma non così coinvolgente. La loro energia arriva ben oltre le prime file. La sorpresa è la stessa che provai, sempre qui, credo sette anni fa, quando rimasi estasiato e travolto dal concerto di Little Steven, che si guadagnò la palma di “concerto dell’anno 2017”. E i Fat Freddy’s Drop si guadagnano d’autorevolezza una nomination per il 2024.
VEDI DI PIÙ
Little Steven e l’arte di essere gregario
LIVE REPORT CONCERTO | ROMA 2018
Ho Villa Ada nel cuore per molti motivi, ma un concerto del genere ha la sua naturale collocazione in una spiaggia. Tropicale o equatoriale, non importa; rum, pina colada e daiquiri a pioggia, sabbia sotto i piedi nudi, palme. E in questo momento che decido che ne scriverò.
Arriva l’elettronica. Dj Fitchie, lancia una cassa in quattro che fa saltare le più di mille persone presenti, su di questa Killa Manraro si inventa un penetrante ostinato funky e la tromba di Tony Chang si lancia in una lunga impro jazz. Nel mentre, Hopepa, il corpulento e istrionico trombonista, che si prende in alcuni momenti il ruolo di frontman, fa volar via lo spolverino e proseguire il live in quelle che, viste da qui, sembrano canottiera e mutande a tutti gli effetti.
È il trionfo delle contaminazioni: l’elettronica, con il dub, la black music in ogni sua declinazione. E nel lungo bis finale si apre la porta anche per la dance elettronica anni ’70 alla Harry Thumann. Sono 124 i bpm (oddio, quando conto i battiti sembro Gampiero Galeazzi durante le sue telecronache di canottaggio). Ma stasera non sono importanti i dettagli tecnici, anche se riconosco che la testata e la cassa Orange, l’amplificatore per chitarra di Killa Manraro, mi provochino più di un sussulto.
Stasera niente dettagli, sorvolo sulla particolarità degli arrangiamenti, non mi preoccupo dei nomi dei pezzi suonati. Non avrebbe senso. Stasera conta solo sentirsi parte di una grande anima collettiva, seguirne il battito, sorridere e riscoprire la pura essenza della musica. La liberazione degli affanni delle individualità, il recupero delle connessioni con le pulsazioni dell’energia, la purificazione attraverso la danza, la riscoperta del corpo come tramite per elevarsi a Spirito. Seguire le Vie dei Canti che dai territori aborigeni stasera attraversano anche il quartiere Salario/Parioli.
Le mie (solite) masturbazioni mentali per dire una sola cosa. Li guardo sul palco e quasi mi torna la voglia di suonare. Ecco, se dovessi raccontare il concerto di stasera con una frase sola, sarebbe questa.
Ho detto quasi, eh.