Vasco Rossi, un successo che non si esaurisce mai
Azzurro, il colore che ho ancora davanti a me quando penso a una sera di giugno del 1989.
Era il Palaeur, ex PalaLottomatica divenuto oggi, più semplicemente, Palazzo dello Sport.
E, dopo alcuni anni di apprendistato vinilico, mi trovavo avvinghiato alla transenna sottopalco (quando i pit e i biglietti gold erano ben lungi da venire) in febbrile attesa e pronto per immergermi in quello che era un vero e proprio rito di iniziazione: la mia prima volta a un concerto di Vasco Rossi.
L’attesa era stata divertente, con gli Skiantos di Freakantoni inspiegabilmente chiamati ad un opening davanti a un pubblico che non poteva essere più lontano da loro.
Il frontman, tuttavia, si divertì molto a ricambiare con piacere i vaffanculo ricevuti da pubblico e a rincarare da par suo la dose.
Per Vasco era il periodo sabbatico dalla Steve Rogers Band e il primo tour dopo la rottura con Guido Elmi.
Per me fu la prima volta in un backstage.
A fine concerto, con Giorgio, un mio amico iscritto al fan club, attendemmo il deflusso del pubblico e oltrepassammo le transenne che delimitavano la zona ad accesso esclusivo di artisti e crew: ci videro, e inspiegabilmente nessuno ci disse nulla.
Così ci ritrovammo fuori dalla porta del camerino del rocker di Zocca.
Stringemmo amicizia con i musicisti e poi, dopo un’attesa che sembrava interminabile, “Roccia”, la storica bodyguard, ci fece entrare.
Mi aspettavo l’artista maledetto, incontrai due occhi azzurri piantati nei miei.
Credevo di trovare la rockstar sprezzante e strafottente, mi accolse un ragazzo dalla faccia pulita, aperta in un sorriso ampio e luminoso, che si scusava per il poco vino rimasto da offrirci.
Dopo due chiacchiere ed un autografo con pennarello indelebile sui miei jeans, ci salutammo.
La settimana dopo, sempre con Giorgio eravamo a Napoli, Ippodromo di Agnano, dove ci riuscì la stessa impresa, millantando un’amicizia con Andrea Braido, che ci resse il gioco alla stragrande davanti alla security assai meno accomodante di quella di Roma.
Fu la prima di una serie lunga, ma non lunghissima.
Stavo scoprendo il rock nelle sue varie declinazioni, (quelle che chi non era addentro metteva tutte dentro l’etichetta di “alternativo”) e non disdegnavo qualche divagazione verso il jazz e le sperimentazioni di vario tipo.
L’appartenenza alla categoria degli “alternativi”, ma sarebbe stato più opportuno definirmi nerd, mi imponeva di mostrare un pizzico di snobismo ed elitarismo, almeno di facciata.
E Vasco era troppo nazionalpopolare perché potessi ammettere apertamente di esserne, fan sfegatato.
Se ascoltavi i Joy Division, i Cure, i Clash, era opportuno non sbandierare troppo la tua passione per ‘Bollicine‘.
Potevi scamparla se eri un fan dei Guns and Roses, dei Metallica o dei Faith No More.
Ma se disgraziatamente cadevi nella spirale del progressive, allora era finita: dovevi rinunciare a vita a ‘Fegato Spappolato‘, pena la scomunica.
O ‘Starless‘, o ‘C’è Chi Dice No‘.
È un’iperbole, ma un piccolo fondo di verità lo si trovava.
Un paio di volte andai ai suoi concerti spinto da amori dell’epoca, altre volte aggregandomi a comitive di amici, per spezzare la tensione di una tesi prossima alla discussione o banalmente per sana voglia di cazzeggio.
Sono passati sedici anni dalla mia ultima volta con Vasco Rossi. Allora fu ad Ancona, con lo stesso amico del 1989.
Toccata, concerto, dormita, bagno a Sirolo il giorno dopo e fuga a Roma.
Senza particolari aspettative e con il giusto distacco di chi guarda con occhio benevolente la propria adolescenza, mi ero ritrovato prima con gli occhi lucidi durante ‘Anima Fragile‘, poi a cavallo del vetro divisorio tra tribune e prato a perdere tutta la voce.
Giugno 2023: non so cosa mi sia saltato in mente, accollarmi il report del concerto di Vasco Rossi, il Mourinho della musica italiana, carisma, magnetismo e di conseguenza capacità di polarizzare l’opinione pubblica, esattamente come lo Special One. Qualsiasi cosa possa scrivere o dire di loro, farai sempre incazzare qualcuno.
Data la mia incapacità nel gestire qualsivoglia tipo di conflitto, sono quasi certo che farò incazzare tutti, fan e detrattori.
In pratica, perderò tutti gli amici.
E poi non so davvero cosa accadrà, ammetto pubblicamente di aver smesso di seguire Vasco Rossi nel 1996, anche se ho continuato in parte a seguirne le produzioni fino al 2001.
Ma ai concerti del Blasco non si va più per le canzoni, così come a vedere la squadra del cuore si va anche quando l’undici titolare non è di prima scelta.
È amore? Non ho i titoli per dirlo, forse senso di appartenenza.
E sui fondamenti di questa appartenenza, l’eccellenza di Vasco è quella di aver saputo trovare una chiave e un linguaggio universale per raccontare viaggi e storie di ciascuno.
E poi attenzione, stiamo sempre parlando di musica, si va anche perché come sempre ha una delle migliori band che si può trovare sui palchi rock, italiani e non solo.
La band, appunto: diverse le conferme ma anche un paio novità nei musicisti che lo accompagnano.
Accanto a lui gli inossidabili e sempiterni Stef Burns alle chitarre e Alberto Rocchetti alle tastiere e synth.
Restano anche, dal precedente tour, Matt Laug (ex Alice Cooper, Slash e Alanis Morissette) alla batteria, Andrea Torresani al basso e Vince Pastano alle chitarre, programmazione e cori.
Identica anche la sezione fiati con Andrea Ferrario al sax, Tiziano Bianchi alla tromba e Roberto Solimando al trombone.
Escono invece due pezzi da novanta, Frank Nemola e Beatrice Antolini, mentre entrano Antonello D’Urso, programmazione, chitarra acustica e cori, e Roberta Montanari ai cori.
Definire il pubblico eterogeneo è una limitazione.
A voler essere nei panni dei detrattori, si potrebbe dire che sembra di stare dentro un treno di Ferragosto.
Più realisticamente è la conferma di come Vasco abbia saputo mantenere la simbiosi con il suo pubblico lungo il corso dei decenni. I concerti di Vasco iniziano almeno tre ore prima dell’orario ufficiale.
Non mi nascondo dietro un dito, l’emozione sale man mano che a piedi percorro Viale dei Gladiatori.
Attendo il pass fuori dallo stadio, il dj set spinge nelle casse Queen, Pezzali e gli 883, Venditti, Bertè, Battisti e altri evergreen del pop italiano in saecula saeculorum.
Il pubblico è già carico a molla, l’energia straborda anche fuori dello stadio.
Scalpito e non mi vergogno a scriverlo.
È una febbre contagiosa, ogni volta che penso di esserne immune mi devo rimangiare le parole.
Intanto dalla posizione in cui mi trovo, è uno spettacolo è anche vedere l’immenso lavoro organizzativo dietro un evento del genere. Rispetto per loro.
Percorrere il tunnel dell’Olimpico dal quale entrano le squadre ed entrare in campo almeno una volta nella vita: fatto. Il tempo di ascoltare dalle casse uno stralcio di un’intervista in cui il Blasco si racconta come un sopravvissuto a quattro decenni, anzi un “super-vissuto”. Alcuni minuti nella zona immediatamente ai lati del palco, studio il da farsi. Mi sfiorano due i roadies con una dodici corde e un basso, probabilmente destinati ai musicisti. Il boato dello stadio sentito dal campo risveglia timori ancestrali, era da un pezzo che non provavo sensazioni del genere. Trovo un posto sufficientemente comodo e vicino al palco. Si spengono le luci dello stadio, si accendono due giganteschi mega schermi che delimitano un palco di 70 metri di larghezza per 26 di altezza, mille punti luce, sei laser, 174 persone fisse al seguito del tour e una luna che appare sui megascreen.
Da ora in poi potete dimenticare tutto quello scritto finora.
La voce di Roberta Montanari, poi l’attacco di ‘Dillo alla Luna‘.
Vasco e la sua band sono una macchina perfetta, ogni dettaglio è curato alla perfezione ma… non importa più nulla.
Parla all’anima del pubblico, senza girarci troppo intorno.
E cattura tutti, nessuno escluso.
L’imperativo è: “Canta, divertiti, godi”.
Si diverte anche lui, e parecchio.
Sorride come mai gli avevo visto fare prima, mentre la musica decolla sulla spinta degli arrangiamenti grintosi, aggressivi, potenti con una grande sessione fiati, essenziale quanto presente e fondamentale nell’aggiungere ulteriore colore e calore.
Steff Burns passa da Gibson a Fender, è il momento di ‘Ogni Volta‘, è il momento delle mie prime lacrime della serata.
Un salto negli anni ’80 con le svisate synth del Lupo Alberto Rocchetti su ‘Domani sì, Adesso No‘, e poi è un impazzire di salti sfrenati su ‘Ti Prendo e Ti Porto Via‘.
Vasco gioca sapientemente con l’energia, alza e abbassa il filo invisibile che lo connette al suo popolo.
Mostra la sua anima crepuscolare ricordandoci come vivere può essere solo ‘Un Respiro In Più‘ e ci svela un segreto di sopravvivenza, lasciarle vivere per assicurarsi che non ci facciano fuori.
L’interludio floydiano della band è il giro di boa del concerto e dopo ‘XI Comandamento‘, un martello rock con riff al fulmicotone, lo spazio se lo prendono quasi tutto gli evergreen del passato più o meno recente.
E i 60.000 dell’Olimpico diventano una sola voce, torce e fumogeni da stadio rispondono ai laser del palco, altre lacrime su ‘Vivere‘, ragazze che lanciano via i reggiseni durante ‘Rewind‘ mostrando le tette all’intero stadio e guadagnandosi il quarto d’ora di celebrità preconizzato da Andy Warhol.
La rabbia de ‘Gli Spari Sopra‘ e poi ‘Canzone‘, per la prima volta dopo non si sa quanti anni eseguita interamente dall’inizio alla fine. Una sorpresa per me la chiusura prima del bis. ‘L’Amore, l’amore‘, che a dispetto del titolo si rivela una tirata senza respiro, che strizza l’occhio ai Guns and Roses di “Appetite for Destruction” e in cui risalta la grandezza musicale, nel senso più ampio del termine, di Vince Pastano, polistrumentista, produttore e arrangiatore di tutti i brani.
E il gran finale, con ‘Sally‘, il medley stavolta elettrico con a chiudere ‘Ridere di Te‘, e a seguire l’intro di basso di Claudio Golinelli che apre ‘Siamo Solo Noi‘, entrato sul palco iconico e splendente per il lungo bis.
La conclusione è la firma finale che Vasco appone in calce ai suoi live: ‘Vita Spericolata‘ e ‘Albachiara‘ con l’interminabile strumentale della band accompagnato da salve di fuochi d’artificio.
Settantuno anni, quarantacinque di carriera, due ore e trentasei minuti di concerto per un successo che non si esaurisce mai.
Dal 1979 ‘Albachiara‘ è l’inno generazionale delle teenager, anche di quelle del XXI secolo.
Piaccia o meno, nessuno come Vasco Rossi ha saputo trovare un linguaggio universale di comunicazione, oltre il tempo, oltre qualsiasi divisione sociale o geografica e intercettare le istanze delle generazioni che si sono susseguite nei decenni.
Nessuno come Vasco Rossi ha saputo raccontare la generazione di provincia, ai margini del sogno utopistico degli anni ’60 e ’70. Così come rappresentare la zona ombra degli anni Ottanta, iperperformanti, arroganti, portatori del falso sogno di benessere e di una felicità di plastica e paillettes, incarnando la rabbia e le inquietudini degli esclusi, degli emarginati o di chi semplicemente non ci stava e basta.
E fin qui ci siamo, ma oggi?
Oggi intorno a me vedo la generazione degli anni Duemila impazzire come i loro genitori ai suoi concerti.
E penso che il suo messaggio si sia caricato di una qualche forma di speranza verso un futuro che appare a tinte in bianco e nero.
E allora la risposta, ammesso che ci sia, è semplicemente che Vasco abbia sempre saputo leggere nei cuori delle diverse generazioni alle quali racconta di essere sopravvissuto e di parlare diretto, senza sconti, in modo limpido, proprio come quegli occhi azzurri mi guardarono quella sera di fine giugno del 1989.
E allora penso che abbia ragione lui: siamo bellissimi e ce la faremo.
Voglio chiudere anche io così.
Proprio come lui.
Tanto l’anno prossimo ritorna.