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Lenny Kravitz

Umbria Jazz 2024 | Lenny Kravitz

IL “BLUE ELECTRIC LIGHT TOUR” DI LENNY KRAVITZ PROTAGONISTA A PERUGIA

Umbria Jazz ospita la prima delle date italiane dell’idolo americano

Perugia, 13 luglio 2024

Amo Perugia, amo Umbria Jazz. Il mio battesimo fu nel 1990. Tempi in cui la parola “cellulare” faceva pensare al trasporto dei detenuti, in cui compravi i biglietti dei concerti il giorno stesso dell’evento, in cui non esistevano le piattaforme di prenotazione degli alloggi e nemmeno le ZTL. Per questo motivo, dormii in macchina a Piazza IV Novembre, con un’amica più matta di me, senza che nessun corpo di Polizia avesse qualcosa da obiettare.

E per la stessa causa provo quello che i francesi chiamano frisson quando dall’uscita stradale di Perugia Prepo, mi inerpico per le vie che conducono al parcheggio coperto di Piazzale dei Partigiani, sottostante al centro storico del capoluogo umbro e adiacente alla grande arena Santa Giuliana, che fino alla metà degli anni Settanta ospitava le partite del Perugia Calcio, trasferitosi al più moderno pian di Massiano, poi Renato Curi, contestualmente alla promozione in serie A.

Ma oggi sono bestemmie e non brividi: la città è in preda al caos. Un gigantesco serpente di macchine paralizzato in attesa di qualcosa. Certamente non di trovare un parcheggio, visto che i due principali ricoveri di lamiere gommate, sono accessibili soltanto agli abbonati. E allontanandosi dal centro la situazione non è delle migliori. Mancano due ore e mezza al concerto di Lenny Kravitz e c’è il concreto rischio di dover lasciare l’auto a chilometri di distanza dall’Arena Santa Giuliana.

Ma la mia città, Roma, è la miglior palestra per sviluppare l’istinto di sopravvivenza urbano. Mi affido a lui e grazie anche alla collaborazione di una gentile anima del posto, riesco a trovare un regolare parcheggio (per giunta gratuito) a 600 metri dalla sede principale dei concerti della manifestazione. Che siano tutti in salita, con una pendenza media del 12%, è un dettaglio che decido essere trascurabile. Mi è andata di extralusso, va bene così.

Il fatto è che una città come Perugia non può assorbire l’impatto di un concerto che richiama 12.000 persone a 150 metri dal centro storico. Disabitudine a eventi di tale portata, scarsità di uomini e mezzi per la gestione dell’afflusso e del deflusso delle persone, e sottovalutazione delle criticità legate al traffico. È una città molto scomoda da raggiungere in treno e sarebbe il caso di ritornare allo stadio Renato Curi per i live dei nomi più di richiamo. Lo si faceva in passato, lo si potrebbe tornare a fare oggi.

Alla fine del live, in migliaia hanno poi imboccato il percorso sotterraneo che da Piazzale Partigiani porta a Piazza Italia, nel centro storico di Perugia. Si è creata la “solita” situazione di potenziale pericolo. Una scintilla e le persone sarebbero state bloccate nella calca senza possibilità di scampo. Migliorabile, anche se non drammatica, anche l’uscita dall’area concerti – anche se non drammatica. Ci saranno sicuramente ragioni che non conosco, ma continuo a non capire la fretta che hanno gli addetti nello sgomberare l’area antistante al palco.

E c’è qualcos’altro che stride, ma non so ancora cosa. Non sono le file per il cibo e le bevande, e nemmeno il costo delle birre (8 euro per 0,4 l.). Anzi, vedo il bicchiere mezzo pieno: niente token, si usano senza problemi carte o contanti. Fanno sorridere i ripetuti inviti a non effettuare riprese video.

Lenny Kravitz
Lenny Kravitz

Quello che conta è che alle 21.45 tocca a lui. Dreadlock d’ordinanza, giubbotto di pelle nero, maglia traforata rossa, jeans, cinturone, scarpe leopardate e grandi occhiali scuri. Intorno e dietro a lui un palco semplice, niente fantascienza. Fantascientifico è lui. Eccezionale la band che lo accompagna, ma non è una novità. Craig Ross, colonna portante chitarristica della sua vita; direttamente dalla Corea del Sud, passando per la Berklee, Hoonch The Wolf Choi al basso; George Laks alle tastiere. Michael Sherman e Harold Todd ai sax, Cameron Johnson alla tromba e flicorno. Sullo sgabello della batteria siede Jas Kayser, londinese, già nei Sons of Kemeth di Shabaka Hutchings, in troppi non se ne accorgono e la scambiano per la “storica” Cindy Blackman, stessi capelli ma quasi 40 anni di differenza tra le due.

Diciotto canzoni, spalmate in due ore di concerto che vanno avanti senza sforzo. Apertura affidata ad ‘Are You Gonna Go My Way’ e a migliaia di urla femminili. Gli estratti da “Blue Electric Light” si limitano al funky grintoso e trascinante di ‘TK421’, ai chitarroni di ‘Paralyzed’ e al pop di ‘Human’ che chiude prima del bis. Il resto è una sequenza dei suoi classici – senza sbavature, perfetti, così come il pubblico sì aspetta. Ritorna anche nel suo passato remoto fino a “Let The Love Rule”, con il funky di ‘Fear’ e la lunga intro con hammond e sezione fiati. È il primo Lenny Kravitz, quello più allineato con lo spirito del festival jazz. Ineccepibile e perfetto. Ma quel cigolio continua a farsi sentire…

Tiene il palco alla perfezione, decido di infrangere un voto e utilizzo il termine più abusato dell’ultimo anno: iconico. Non c’è nulla e nessuno che lo sia più del cantautore e polistrumentista di New York.

Da quando il mondo dei social ha rilanciato la sua dichiarazione di conversione alla fede cristiana, la confessione della pratica della castità, le sue foto in vasca da bagno con addominali scolpiti in bella vista, ogni suo gesto è diventato archetipo erotico. Al punto di non salvarsi dal ricevere l’omaggio della nota canzone di Loredana Berté, ma declinata al maschile.

Va anche oltre l’essere un sex-symbol quando ricorda di celebrare ogni giorno di vita senza darlo per scontato e di trasformarlo in un’opportunità di amare e migliorarsi. Invita a celebrare attraverso la musica questa serata unica. Ma credo che la maggior parte del pubblico femminile intenda una celebrazione di tipo diverso. Un po’ scontata la gag della videochiamata sul palco, ma glielo concediamo.

‘Stillness Of The Heart’ è uno di quei pezzi che si cantano all’infinito accompagnati da una chitarra acustica. Invita a farlo, suggerendo le parole prima di ogni verso. Il risultato, tuttavia, non è dei migliori, e mi arriva una pulce nell’orecchio: quanti sono qui principalmente per le canzoni? Quanti sono fan della sua musica e della sua parabola artistica? Sarebbe un peccato, perché davvero va tutto alla grande. Padroneggia ogni tipo di suono e ogni tipo di stile. Raffinatezza, energia, esplosività, eleganza. Mescola pop, jazz, blues hard rock, funky con la maestria di un artigiano. Perfetta anche la sequenza dei pezzi. Eppure, c’è qualcosa che mi rende irrequieto…

La chiusura è una serie di classici che ‘The Chamber’, ‘It Ain’t Over ‘Til It’s Ove’r ‘Again’, ‘Always on the Run’ ,‘American Woman’ (cover di una canzone dei The Guess Who, è bene ricordarlo alla luce dei dubbi di cui sopra), ‘Fly Away’. Non serve che aggiunga nulla, né lui sul palco, né io qui. Sono fomentato a dovere. È uno spettacolo perfetto. È vero, non c’è l’effetto sorpresa, sa già cosa aspettarti. Ma è un concertone, coinvolgente e divertente. Le due ore volano, e potrebbero anche essere tre. Però ancora quella puntura di spillo…

Per il saluto finale torna nel passato con ‘Let Love Rule’. Ancora il Lenny Kravitz delle origini, il più black. Una ballad RnB, con hammond sotto a far da tappeto su una sequenza di accordi pop, l’intervento finale dei fiati e coda infinita che mi ricorda a cosa siano serviti i Beatles della suite di Abbey Road. Poi la consueta discesa tra il pubblico. Percorre l’intero perimetro dell’Arena Santa Giuliana, sosta per diversi minuti al mixer e conferma la nuova identità di dispensatore di amore puro, apollineo e disinteressato, salutando e abbracciando una signora non più giovanissima e consentendo a me, appostato proprio alla transenna che delimita l’area dei tecnici di luci e suoni, di portare a casa qualche foto decente e molti like sulle mie pagine social. Ma…

Ma intanto ho capito quale sia granello di sabbia che mi ha impedito l’abbandono completo alla musica durante tutta la serata.

Se non avessi avuto davanti agli occhi, sopra i due megaschermi ai lati del palco, il logo di Umbria Jazz 2024, avrei in parecchie occasioni pensato di trovarmi in un locale di balli latino-americani a Tor Sapienza la sera dell’8 marzo. La narrazione degli ultimi anni su Lenny Kravitz lo ha trasformato in un sex symbol sessantenne da baraccone. Un live è fatto anche dalle persone che vi partecipano e stasera, un buon 40% del pubblico (e mi tengo molto basso) ha trasformato un concerto coinvolgente, divertente, ben suonato, in una sagra del pecoreccio. Un pubblico che non sa comportarsi, che non sa ascoltare o che non ci prova neanche. Un pubblico per il quale la musica non conta.

E purtroppo, in modo tacito, come prevedibile, l’artista sta al gioco e asseconda. E mi dispiace. Lenny Kravitz è un grande polistrumentista, ha voce, ha una ottima scrittura, ha “i pezzi”. Perché diventare Elodie? Perché trasformarsi nello Stjepan Hauser del rock? Con la differenza che ha dare di matto per il violoncellista croato sono le mamme, mentre nel suo caso sono ragazzine ventenni. Sì, la differenza è anche nella qualità proposta musicale, ma sembra importare a pochi.

E no, non mi dispiace. Mi incazzo proprio, perché la musica di Lenny Kravitz è Cultura, con la maiuscola. Ma stasera, per una gran parte del pubblico e solo la versione maschile del calendario boccaccesco che troneggia negli uffici dei meccanici o dei gommisti. Se non c’è cultura dell’ascolto, sparisce anche la qualità della proposta, e viceversa. E se svaniscono qualità della proposta e cultura dell’ascolto ti fanno passare qualsiasi cosa nel cervello. Che sia cultura qualsiasi cosa. Anche Gennaro Sangiuliano Ministro.

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