Tortoise live a Roma: come riproporre una autentica ed antica magia
Lo ammetto spudoratamente: ho sempre avuto un debole per quel vasto movimento musicale nato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 universalmente conosciuto con il nome di post-rock.
In realtà, in questo vasto calderone creato dal critico Simon Reynolds finirono gruppi che avevano approcci e finalità considerevolmente diversi.
Il paradigma era: creare musica con una strumentazione rock con una finalità che non è prettamente rock.
All’epoca c’erano due poli ben definiti negli USA, uno che faceva capo a Louisville, e l’altro a Chicago: la scena era estremamente vitale e comprendeva svariate collaborazioni tra musicisti, creazione di diversi side projects, e molti degli album registrati in quel periodo non ebbero all’epoca la meritata dimensione mediatica solo per la quasi contemporanea esplosione del movimento grunge che, almeno a livello mainstream, ne oscurò la visibilità.
Fortunatamente il tempo si è rivelato galantuomo e con il passare degli anni ha reso giustizia ai vari June of 44, Gastr Del Sol, Slint o Rodan – tanto per citare alcuni tra i gruppi più famosi.
I Tortoise sono stati uno dei gruppi più importanti di quella scena vitale, nati dalle ceneri di grandi gruppi (Squirrel Bait, Bastro, Slint, Bitch Magnet), ma capaci di prendere varie suggestioni rock, elettroniche, dub, e farle confluire in un suono “altro” che comprendeva anche i benefici influssi delle due scene più interessanti e creative degli anni ’70, la scena di Canterbury da una parte ed il kraut-rock dall’altra.
La band, dopo i primi tre esplosivi album, aveva iniziato a diradare l’esposizione discografica, forse per mascherare un’evidente calo creativo che aveva toccato il fondo con l’ultimo “Beacons Of Ancestorship” del 2009 e forse per permettere ai musicisti di espandere le loro esperienze soprattutto nel campo della scena improv ed alternative jazz.
Onestamente non avrei scommesso un centesimo su una rinascita creativa di un gruppo che mi sembrava in continua involuzione, invece il nuovissimo “The Catastrophist” (recensione) ha saputo sorprendermi: i 5 polistrumentisti di Chicago sono riusciti ad asciugare il loro suono, riportandolo ad una forma-canzone anche con l’inserimento di due brani cantati, vera novità per una band che è sulle scene da più di vent’anni.
Tutto questo ha indubbiamente alzato le aspettative che mi hanno condotto al Monk di Roma il 20 febbraio per vedere finalmente il gruppo nella dimensione live.
Ad aprire la serata ci pensa Sam Prekop, ex Shrimp Boat e sodale del Tortoise John McEntire nel progetto Sea And Cake, cui presta la sua voce vellutata per condire il loro prelibato ed elegante sound.
Prekop sale sul palco nell’indifferenza generale, con il giaccone addosso ed un improponibile berretto di lana rosso. Sembra in realtà un tecnico del suono chiamato ad aggiustare qualcosa quando si siede sullo sgabello del drumkit di McEntire, ed inizia a trafficare con le varie manopole e jack del rack modulare che ha davanti.
Il suo live set è di pura elettronica, composto da suoni che provengono direttamente dal suo nuovo lavoro “The Republic”, nato come accompagnamento musicale dell’installazione del video artista David Hart che porta lo stesso nome.
Prekop accavalla le gambe sullo sgabello, e procede a briglie sciolte con i suoi jack e le sue manopole, sovrapponendo droni, scosse electro-ambient ed incanto minimalista. Per quanto il suono che esce dal rack possa essere di indubbio fascino, probabilmente non è questa la dimensione ideale per lui, visto che passata la prima metà del set comincia a sentirsi sempre più forte il brusio dei presenti, segnale chiaro di una perdita d’attenzione da parte dell’eterogeneo pubblico del Monk. Dopo 30 minuti, Prekop se ne va così come era arrivato: senza dire una parola si alza dallo sgabello, si gira e svanisce dietro le quinte.
Con soli 10 minuti di ritardo rispetto all’orario stabilito, salgono sul palco i Tortoise, accolti da un pubblico eterogeneo ed entusiasta che ha riempito fino all’inverosimile la piccola ma accogliente struttura del Monk.
I cinque si posizionano sul palco con John Herndon ad occupare uno dei due drumkit posizionati uno di fronte all’altro, dietro John McEntire e Dan Bitney a dividersi le tastiere, sulla destra Jeff Parker alla chitarra e sulla sinistra Doug McCombs al basso, che esibisce un terrificante barbone bianco.
La partenza è dedicata ai primi due brani del nuovo “The Catastrophist” che vengono eseguiti in sequenza: la title track e ‘Ox Duke’ si susseguono eleganti nel loro incedere morbido, mostrando la straordinaria abilità dei musicisti che si alternano senza problemi ai vari strumenti.
Herndon passa alle tastiere lasciando a McEntire l’incombenza della parte percussiva, i due insieme a Bitney sono mostruosi nel volteggiare tra batteria, synth e vibrafono come dimostra la successiva ‘Gigantes’, che vede McEntire e Bitney contemporaneamente dietro i tamburi.
Il groove scuro e quasi mediorientale di ‘Shake Hands With Danger’ colpisce duro anche nella versione live con il poderoso rullante di McEntire che riecheggia fino alla Roma-L’Aquila.
Si prosegue con il ritmo spezzato e ricomposto della più melodica ‘Tesseract’ che vede Herndon ad occuparsi del basso e dimostra la ritrovata vena della band di Chicago.
‘The Suspension Bridge At Iguazú Falls’ è il primo estratto dallo splendido “TNT”, album uscito nel 1998 che vedeva per la prima volta la presenza del fraseggio jazz della chitarra di Jeff Parker.
La lunga ‘Gesceap’, primo singolo (!!!) tratto dal nuovo lavoro mette in risalto la struttura kraut che si eleva dalle linee di synth parallele create da Bitney ed Herndon, linee che lanciano in orbita nel finale il fantastico drumming in levare di John McEntire.
‘Hot Coffee‘, sempre tratto dall’ultimo “The Catastrophist”, mette in evidenza una sincopata ritmica funk, mentre le seguenti ‘Prepare Your Coffin’ e ‘High Class Slim Came Floatin’ In’ (tratte dal debole “Beacons Of Ancestorship”), trovano nella dimensione live una nuova vitalità che li rende tra i brani più compiutamente rock dell’intera setlist.
Soprattutto il finale di ‘High Class Slim..’ è assolutamente pirotecnico, Bitney e Herndon duellano a colpi di bacchette, sorridendo compiaciuti da dietro le loro batterie, con quest’ultimo che con la sua mole poderosa ed il suo approccio fisico allo strumento sembra sempre sul punto di devastare il povero malcapitato hi-hat.
Dopo una simile esplosione c’è bisogno di un attimo di relax, ed i nostri ci vengono in aiuto con la morbida ballata soul di ‘Yonder Blue’, uno dei due brani cantati del nuovo album, che nella versione live è naturalmente orfana della splendida voce di Georgia Hubley degli Yo La Tengo.
Si riprende con ‘At Odds With Logic’ e ‘Crest’ che confermano il fantastico interplay tra i musicisti anche alle prese con ritmi vicini all’america latina, e chiudendo momentaneamente il concerto.
I cinque si rintanano velocemente nel backstage salvo poi (seguendo una prassi consolidata e spesso stucchevole, ma forse sono io che sto invecchiando male…) ripresentarsi poco dopo, McCombs mostra fiero l’ennesima birra, prima di riprendere con una splendida versione di ‘Monica‘, che suona molto più viva e meno sintetica della versione in studio di “Standards”.
‘In Sarah, Mencken, Christ, And Beethoven There Where Women And Men’ è a dir poco entusiasmante, con un ennesimo percussivo duello finale tra i sempre più concentrati e divertiti Herndon e Bitney.
Ancora un veloce saluto (i Tortoise sono fantastici con i loro strumenti ma dovrebbero lavorare almeno un po’ sulla comunicazione), prima di tornare con il secondo ed ultimo encore: un’inaspettata e straordinaria ‘I Set My Face To The Hillside’ che chiude l’intero set come meglio non si potrebbe dopo un’ora e mezza di grande musica.
Un’esibizione che difficilmente può lasciare indifferenti, incredibile la performance dei musicisti ed ottimi gli arrangiamenti live nonostante i timori della vigilia di McEntire che prima del tour aveva detto: «Immaginare come poter riprodurre live queste canzoni sarà una bella sfida».
Se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, potrei soffermarmi su un Jeff Parker apparso non troppo ispirato, o su una setlist eccessivamente imperniata sul nuovo album.
Insomma, una ‘The Taut And Tame’ o ‘Glass Museum’ tratte dal loro capolavoro “Millions Now Living Will Never Die” sarebbero state, per intenderci, la classica ciliegina sulla torta.
Mi è parsa ottima l’organizzazione del Monk che si è trovata a gestire un evento sold out.
Unici nei: il suono apparso non ottimale e l’altezza (scarsa) del palco penalizza la visione da parte del pubblico posizionato da metà sala in poi.
Tirando le somme, una splendida serata passata in compagnia di uno dei gruppi più significativi degli ultimi 25 anni per quanto riguarda la musica indipendente, l’interscambiabilità dei ruoli, la ritmica potente ma sofisticata, i rimandi kraut e jazz, i felici approdi sperimentali, il ritrovato gusto per la forma canzone.
I Tortoise sono stati capaci di riproporre la loro autentica ed antica magia.