Torino Jazz Festival: cosa succede in città
Tutti quanti voglion fare jazz…
…perché resister non si può al ritmo del jazz. Lo dicevano gli Aristogatti e quando sei bambino ci credi e vorresti fare jazz anche tu. Poi bambino intelligente cresci e con l’adolescenza diventi scemo, e scopri il rock e altre cose, e cominci a pensare che il jazz sia solo un mare di seghe di gente che passa dieci ore al giorno a studiare scale col sassofono. Col passare dell’età impari a dare il giusto peso alle cose e cercare di capire cose che non capisci, per esempio in questo Torino Jazz Festival. Il jazz e il rock sono parenti lontanissimi che potrebbero anche starsi simpatici nonostante parlino lingue diverse.
Remi
Io per esempio non parlo bene il francese però con Remi che è di Lione ci ho provato. Certo potevamo esprimerci in inglese ma sarebbe troppo banale.
Remi Crambes è stato un po’ di volte a Torino, all’inizio l’ha trovata freddina, col tempo se ne è innamorato fino a preferirla alla sua città. Il top per lui è sedersi all’inizio di Piazza Vittorio e guardare verso la Gran Madre (la Granmadré), un po’ di nebbiolina e una birra in mano…Gli chiedo quali posti ama di più in queste vie, la prima cosa che gli viene in mente sono “les bars”.
Remi guardando la Gran Madre immagina spesso di attraversare il fiume camminando. È finita che ci suonerà sopra, lui da solo su una zattera, in mezzo all’acqua, alla vigilia di mezzanotte. Si sente già sufficientemente “liquido”. La stessa mano che tiene la birra avrà l’archetto del violino. Non si può mancare.
Fringe
È la serata inaugurale del Torino Jazz Festival, venerdì 22 aprile, inizio dal Blah Blah dove si esibisce Furio Di Castri (contrabbassista e direttore artistico degli eventi “Fringe”) con il suo quartetto. L’affollamento inizia dal cosiddetto apericena, i ragazzi che promuovono la birra sponsor offrono “chupiti” di birre che spiegano con dovizia di particolari, molto meglio dei volantini un po’ sgrammaticati.
I più giovani fuori, i meno giovani dentro. Il rock si ascolta in piedi, il jazz si ascolta seduti, i più anziani lo sanno e hanno già i posti migliori. Per tutta la manifestazione non riuscirò a imparare il trucchetto.
I musicisti dedicano un pezzo a Prince, che se ci penso era il più jazz delle popstar. Ho la sensazione che le dediche in questi giorni si moltiplicheranno, ma loro sono i primi a farlo ed è quello che conta. Comunque questa edizione è in omaggio a Gianmaria Testa, altro lutto di questo 2016 anno bisesto.
Il batterista (stazza da vero batterista) mostra una delicatezza alle percussioni che per timpani rock come i miei è sconosciuta. Un pezzo dedicato agli incontri d’amore si chiama ‘Boy meet girl meet boy etc’, un concetto universale che dai Blur al Jazz vale sempre.
La ggente al Torino Jazz Festival
Correnti di sdruscio in via Po. Ogni tanto vedi qualche musicista vestito bizzarro con custodia del violoncello piena di adesivi alternativi. Hipster quarantenni, punk sedicenni, tipe in tiro. Sciampe quartet, manici quintet…
SSST!
Tre ragazze al tavolino del bar all’aperto, una di colore, una bionda, una media. Parlano ad alta voce in una lingua che non identifico (stavolta mi arrendo!) ma potrebbe essere portoghese. Dal tavolo accanto, una madama dice «SSST! State urlando!» quelle si guardano interrogative e ricominciano come prima. Ordinano ancora una cosa e riferiscono alla cameriera del ssst della madama, la cameriera è mortificata e dispiaciuta. Pagano con un pezzo grosso, dopo un po’ se ne vanno, lasciando cocktail a metà e una manciata di pizzette e stuzzichini. Che stile.
(Nessuno mi vede, ho fame, rubo le pizzette avanzate.)
Tip tap
Mezza sera. Qualche minuto d’attesa e finalmente la canoa scende sul fiume. Si dirige verso la zattera in mezzo all’acqua, dove sale la ballerina per iniziare un quarto d’ora di ballo tip tap.
L’assolo sull’acqua del Torino Jazz Festival che tradizionalmente è dedicato ai musicisti, stavolta è dedicato a una ballerina, che lì in mezzo al fiume danzerà sulla tensione che tutti ci divora, cioè quella sensazione di pericolo di perdere l’equilibrio e cadere in acqua.
Il riverbero acustico tra le arcate dei Murazzi e le pendici della collina trasforma i colpi di tacco in rulli di tamburo. Pochi passi leggeri verso l’orlo e la ballerina sfiora il fiume con le dita, schizza cerchi d’acqua che il riflettore insegue. È quello che su quella zattera verrebbe a tutti voglia di fare. Ma io penso che perderei l’equilibrio, cadrei in acqua, vestiti pesanti e non saprei stare a galla, ingoierei acqua schifosa sguazzando confuso finché qualcuno viene a salvarmi.
Marije Nie invece addomestica il fiume, danza su pochi centimetri di legno, torna al centro della chiatta e conclude tra gli applausi, che col tip tap fanno pure un po’ pendant.
Ancora fiume
Il giorno dopo, 23 aprile, di nuovo Torino Jazz Festival. La città è supersexy. Il corso morbido e incessante del Po è un’epifania che fonde il concetto materiale dello spazio a quello trascendente del tempo. Dai, sembra una città eterna anche questa, anche stasera. Certo, passa accanto la macchina degli zarri con la musica ignorante che pompa le casse e diventi improvvisamente nazista. Ma è un attimo che passa come quella bottiglietta di plastica che qualche idiota ha gettato. Da una parte la collina, case e palazzi da fiaba, benessere poco ostentato che si ritira in cima alle salite, per lasciare l’altra sponda all’umanità di tutti i generi di tutto il mondo, che tra i Murazzi e il Manicomio di Collegno si ferma e pensa che è un buon posto dove fermare il proprio corso.
“Remi in barca”
Remi Crambes esce dall’Esperia, strumento in custodia e sigaretta post-cena, nessuno attorno si rende conto che tra pochi minuti l’unico riflettore sarà puntato su di lui, l’unica musica verrà dal suo violino, l’unica cosa che succederà in città sarà il suo assolo.
Scende sul terrazzo del Circolo Esperia, microfono da aggiustare dentro la camicia, mentre quelli dello staff fanno le cose da staff. I volontari sono volenterosi.
In questi eventi di “music on the river” il primo momento che pompa l’emozione è quando la canoa che porta il musicista molla gli ormeggi e si dirige verso la zattera che sta in mezzo al fiume. Le voci di colpo si mozzano, ti rendi conto che tutto il casino che rimbomba in città (la musica zarra dei locali, i bongoloidi nel parco ecc) di colpo non c’è più.
Un fascio di luce illumina la zattera, vuota, solo uno sgabello in centro. Remi dalla canoa passa sulla zattera e attacca le prime note. Dall’Esperia ai Murazzi c’è una grossa eco ed è come se il violino avesse un effetto delay. Le mie orecchie rock ci sguazzano. Si siede e inizia a suonare, suono dolcissimo e pulito, non ha quell’accento stridulo cui sei abituato quando senti un violino. Forse ascoltare il violino funziona come bere il vino: anche senza essere un sommelier, ti accorgi quando bevi un vino buono piuttosto che uno “normale”.
Remi va avanti con liquidi flussi di note, ondate di improvvisazioni che segue ora alzandosi e volgendosi al riflettore, ora tornando ad appoggiarsi sullo sgabello. L’assolo non finisce, perché quando la canoa torna dalle sue parti Remi si avvicina, lascia la zattera e risale in canoa, senza smettere di suonare, continuando il suo assolo davanti al pubblico affacciato dai Murazzi.
Si spengono i riflettori e si accendono le luci, Remi torna sulla terraferma, c’était super.
Birra
Maledetti rappresentanti della birra sponsor! Ora abbiamo tutti voglia di quella birra lì, se non abbiamo quella bottiglia in mano siamo out! Guinness is Business…
Piano vs chitarra
Subito dopo all’Esperia attacca il Tri(o)kàla, basso batteria pianoforte, è ovvio fermarsi a sentire. Pienone di gente, pochi fortunati seduti ai tavoli, molti dietro in piedi, io dietro a quelli dietro che cerco di infilare la testa tra gli spiragli di quelli alti davanti a me. È un set di brani originali ma che conquista anche i meno avvezzi al jazz. Il mio pensiero ignorante è che nel jazz il pianoforte “acchiappa” di più rispetto alla chitarra, mentre nel rock è il contrario: la chitarra è primadonna e il pianoforte zerbino. Magari mi sbaglio. Magari chiedo un’altra birra.
Palazzo Saluzzo Paesana
E fu sera e fu mattina: oggi è domenica che è il giorno in cui ci si riposa.
Palazzo Saluzzo Paesana è un gioiello del settecento nel centro di Torino. Qui accadono una serie di cose. Nella notte di Halloween gli appartamenti si aprono, gli abitanti si trasformano e prende vita una enorme labirintica festa fra i corridoi del palazzo. Sorrentino ha girato tra questi scaloni e terrazze alcune scene del film “Il divo”. Ogni tanto mostre, matrimoni e turisti curiosoni movimentano la vita dei sedentari signori negli appartamenti e degli studenti vagabondi nelle mansarde. Nelle sere d’estate, quando le finestre aperte cercano aria, una cantante soprano orgogliosamente regala la sua voce cantando qualche aria a beneficio dei tantissimi dirimpettai.
Qui il Torino Jazz Festival è la domenica pomeriggio, all’interno dell’appartamento padronale, dove è ospitata una mostra su Mario Giansone: scultore e artista per un po’ tutto il Novecento, ha dedicato al jazz molte sue opere. Qui c’è il pienone a seguire l’esibizione del quartetto guidato dal giovane sassofonista Paolo Celoria, molti classici ruspanti del genere, è rimasto spazio solo per spiare dal buco della serratura.
Night Towers (SSST #2)
Immagina in Piazza Vittorio tre torri illuminate, sopra le quali i musicisti suonano per il pubblico della piazza. Tutto molto bello. In realtà passano praticamente inosservate perché il volume del suono è irrisorio. Molto più si sente il brusio della gente, che sotto queste torri si ritrova per il classico cazzeggio di piazza. Qualche giorno dopo apri il giornale e scopri che le Night Towers sono state silenziate dai soliti comitati anti-movida. Benestanti benpensanti possidenti con corti di azzeccagarbugli che sventolano diffide, spediscono accertamenti cagacentimetri.
«Non abbiamo nulla contro il jazz. Molti nostri associati sono dei cultori. Ma, intanto, abbiamo visto i volantini che promettevano che la musica avrebbe dilagato. E ci siamo allarmati…»
E allora di nuovo SSST! Un pugno di vite meschine esultano per essere riusciti a calpestare espressioni artistiche. Trattasi non di black metal alle due di notte, ma di jazz alle undici e mezza. I loro citofoni, fatti di codici e non di cognomi, sono l’unica musica che meriterebbero di sentire tutta tutta l’intera notte.
Whiplash
Di nuovo “Whiplash”? Sì, è il famoso film sul jazz, sorprendente opera prima di Damien Chazelle, che un anno fa assieme a “Birdman” di Iñarritu ha fatto il pieno di premi Oscar, che curiosamente avevano entrambi la batteria come strumento centrale della colonna sonora. Stavolta la proiezione del film (al Cinema Massimo) è accompagnata dal vivo dalla batteria di Antonio Sanchez, che di “Whiplash” ha composto e suonato tutte le parti di batteria. Me lo perdo purtroppo, ma uno non può mica vedere tutto! Sanchez tornerà in città in estate ad accompagnare Pat Metheny.
Perdersi
Appunto, uno non può mica vedere tutto. Mi perdo anche Roy Paci (comunque l’avevo visto qualche edizione fa coi Corleone) insieme a Hindhi Zahra e l’Orchestra del Fuoco in cui, guarda un po’, c’è anche Enrico Gabrielli. Stessa cosa per il concertone della Liberazione, ma lo potete vedere nelle foto di Luigi De Palma.
Per seguire un Torino Jazz Festival, alla fine, l’importante è l’improvvisazione. Anche questo è jazz! Non è semplicemente zapping presenzialista, è un buttarsi nel fiume e seguire la corrente, nel mio caso non è la corrente principale (“mainstream” letterale), le esibizioni più “piccole” sono interessanti quanto i grandi nomi. L’importante non è cosa ti perdi ma come ti perdi. E con questa sentenza…