TOdays Festival 2023 | Day 02: Verdena
La prima travagliata giornata torinese impone una mattinata di ricerca di rassicuranti rifugi.
I tajarin di una storica piola dai ricordi romantici assolvono egregiamente al compito.
Meno romantico è il cielo, che nel giro di pochi minuti si oscura e scarica la sua prima dose di acqua e saette.
Si spezza la terribile canicola che è stata finora e grazie al previdente tempismo da meteo ossessionato, rientro a casa in condizioni semi presentabili.
Dicono che domani sarà peggio, ma non ci diamo pensiero.
La temperatura si è abbassata a quote umane, a tutto vantaggio della fruibilità dei concerti di oggi, che si aprono con la Gilla Band.
Premessa doverosa e breve storia della band.
Dara Kiely (voce), Alan Duggan (chitarra), Daniel Fox (basso) e Adam Faulkner (batteria) formano a Dublino nel 2011 la Girl Band.
Si caratterizzano per un suono fortemente identitario, tra post-punk e noise rock, decisamente spostato verso il secondo polo.
La Rough Trade ne intuisce il potenziale e li mette sotto contratto.
Pubblicano il primo album, ma quasi contemporaneamente Dara Kiely sprofonda nel suo personale abisso e deve fronteggiare gravi problemi di salute mentale che mettono a rischio la sopravvivenza della band.
La loro musica ne è il perfetto epifenomeno.
Kiely sembra venirne fuori, la band cambia nome in Gilla Band, per eliminare qualsiasi riferimento legato a identità di genere e pubblica nel 2022 il terzo e ultimo lavoro, il cui titolo “Most Normal”, alla luce di quanto raccontato ora, ha tutta l’idea di essere un biglietto da visita.
Perché questa premessa?
Perché guardando e ascoltando la band sul palco penso alla loro musica come a una traduzione sonora dell’Ulisse di Joyce.
Il suono è acido solforico allo stato puro, schizza senza controllo impazzito devastando e corrodendo tutto ciò che incontra.
Mai come in questo caso posso dire di ritrovare nella musica i mostri che divorano l’anima di una persona.
Gli strumenti sono martoriati, ma ad essere straziata è soprattutto la voce di Kiely.
Una crisi psicotica in versione noise rock, una stanza di contenimento con materassi spessi alle pareti e dentro la liceità di liberare tutta la violenza e la disperazione di uno stato psicotico.
Questo è quanto ascolto, o quantomeno quello che mi arriva.
Capisco il fascino dell’artista disturbato, l’attrazione per il lato oscuro della psiche, la passione per la sperimentazione, per i flussi di coscienza, l’importanza della musica come terapia…ma è inascoltabile.
C’è direzione, non c’è struttura, non trovo narratività, ancorché contorta.
Mi sembra che la band giochi sullo stereotipo dell’artista maledetto, genio e sregolatezza.
A qualcuno piace, probabilmente a molti.
Io provo fastidio.
Mi piace il noise, mi piace l’improvvisazione libera, mi piace il jazz sperimentale.
Ma non vedo nulla di tutto questo, se non la follia di chi sta sul palco.
È un festival rock, non una sessione di musicoterapia.
Fare da presa a terra del disagio psichico di chi sale sul palco?
Forse un’altra volta, ma non in questo momento, almeno per me.
Ho già dato.
Preferisco buttare l’orecchio sui discorsi di due giornalisti che parlano di calcio e di Milan.
Next, please.
La successiva è Anna Calvi, song writer inglese – dalle chiare origini italiane – che si presenta sul palco del TOdays imbracciando la sua fedele Telecaster.
Accompagnata da una tastierista, all’occorrenza anche alle percussioni, e da un batterista che si occupa anche dell’elettronica.
L’intro che ne svela le eccellenti qualità chitarristiche: mi sorprende più che positivamente.
Il suono possiede la bellezza e la calda naturalezza della saturazione valvolare.
Di tutto rispetto è anche la sua tecnica chitarristica, in chiusura del primo pezzo dà dimostrazione di padronanza della tecnica dello sweep picking.
Ha una voce intensa e ricca di armonici, che parte piano, ma sale di dinamica lenta e inesorabile. Il pubblico intorno a me, inizialmente distratto e perso in chiacchiere, se ne accorge e le dedica la giusta attenzione.
I tappeti di tastiere hanno un suono vintage, ricordando in qualche brano quasi un vecchio mellotron, la chitarra diventa psichedelica, l’aggiunta di delay apre a orizzonti sconfinati.
I suoni portano nell’universo dark-wave e l’accostamento della critica inglese a Siouxsie Sioux non è poi tanto peregrino.
Le sue canzoni sono magnetiche e accattivanti e per l’ennesima volta volta mi scopro a vagheggiare il desiderio di cantautrici simili anche in Italia.
No, pardon, mi correggo: ci sono artiste che hanno la forza e la personalità di allontanarsi dallo stucchevole concetto di “bel canto” per investire e concentrarsi sulle idee, ricerca e originalità di proposte – penso a Emma Nolde, ma non solo – ma restano confinate in nicchie, senza godere della ribalta che meriterebbero.
Va bene, non scopro certo l’acqua calda.
Dopo qualche piccolo problema di amplificazione e l’intervento di un tecnico sul palco e conclude liberando le urla della sua chitarra sopra una cavalcata oscura e intensa di batteria.
Grande performance la sua, appagamento da parte mia.
Ma ora sono cazzi, di quelli veri.
Sì, sono cazzi perché sul palco ci sono gli Sleaford Mods.
Li ho sfiorati non più tardi di dieci giorni fa: a Budapest si sono esibiti nella gigantesca tensostruttura del Freedome Stage, penalizzati dalla contemporaneità con il live di Billie Eilish.
I racconti di chi ha avuto modo di vederli in questa occasione hanno aumentato la mia curiosità o, come si dice oggi, hanno accresciuto il loro hype.
Sono due, Jason Williamson (voce) e Andrew Fearn alle basi, vengono da Nottingham, sono lanciatissimi, al punto da aver aperto ai Blur Wembley l’8 luglio scorso.
Iggy Pop li racconta come la migliore rock band degli ultimi anni.
Scarni ed essenziali: Williamson urla, sputa, vomita testi di denuncia che sono uno schiaffo al vetriolo che arriva dritto dalla working class inglese.
Lo fa graffiando con lo stretto slang delle midlands, difficile da comprendere anche da chi mastica un buon inglese.
Osservo la reazione del pubblico, che sembra decisamente apprezzarli e mi tornano in mente le parole che una trentina di anni fa sentii pronunciare al teatro Eliseo di Roma da Dario Fo.
Subito prima di portare in scena “Bonifacio VII e lo stunat”, uno dei pezzi in Gramelot più celebri del suo “Mistero buffo”, ci diede le sue istruzioni per l’uso: «se cercate di capire, non capirete nulla. Se invece vi lasciate andare e smettete di pensare ai suoni che escono dalla mia bocca, capirete tutto».
Ma Williamson non è Dario Fo e non capire i suoi testi equivale a perdersi buona parte dell’impatto della band.
Restano la sua timbrica e la prosodia, ficcanti ed aggressive.
Si gioca bene la carta del tono da punk inglese incazzato o da hooligan del Millwall, anzi del “Forest”.
Decisiva e centrale è anche la gestualità tourettica: spesso di profilo, con la mano destra che a scatti si tocca a ripetizione la parte posteriore della testa.
Prima pensavo a Dario Fo, ora ad Albert Mehrabian e al peso differenziale delle tre componenti della comunicazione – verbale, paraverbale e non verbale – sull’effetto emotivo suscitato nell’interlocutore, a vantaggio delle ultime due componenti.
Il tema meriterebbe approfondimenti, ma non in questa sede.
I dubbi principali, almeno i miei, sono musicali in senso stretto, soprattutto, come già detto, se non si coglie appieno il significato dei testi.
Alla lunga il tutto può risultare stucchevole, anche perché le basi sono ripetitive e prive di grosse idee.
Ma attenzione, è proprio Andrew Fearn, il responsabile di queste, che introduce sul palco un elemento attrattivo live set, forse quello che colpisce di più tutti i presenti: all’inizio si limita a premere un tasto per far partire la base, ma una volta lanciato il pezzo inizia a scatenarsi in stralunati e incredibili balletti da una parte all’altra del palco.
L’effetto Mauro Repetto è dirompente e scopro ben presto che siamo in parecchi ad avere avuto la visione dell’altra metà degli 883.
Se c’è una band che polarizza, questi sono gli Sleaford Mods.
Il dibattito è aperto e non pretendo di chiuderlo io: fortissimi, sopravvalutati, noiosi, divertentissimi, adorabili cazzoni, hanno grande energia, sono inutili dal vivo, su disco hanno un senso ma dal vivo per carità, hanno testi d’impatto, stanno riportando il malcontento e la rabbia del sottoproletariato inglese nell’alveo di rivendicazioni politiche di sinistra, sono i punk della seconda decade degli anni Duemila, sono semplicemente paraculi, li detesto, li adoro.
I commenti che leggo in tempo reale sotto un post pubblicato da un amico giornalista.
Il loro manager si frega le mani, io non ho ancora ben deciso chi o cosa siano e mi limito a raccontare quello che vedo e ascolto.
Però sono sicuramente simpatici e gentili: al termine della loro performance li taggo su una storia Instagram, nemmeno quindici minuti e arriva un messaggio – «Thanks for watching».
Mi fanno sorridere, non è cosa facile ultimamente.
Com’è che si dice? Ai posteri…
A farmi sorridere riesce l’AC/DC, il burger gourmet che in tempi relativamente veloci riesco a portarmi a casa.
La situazione del food è meno critica rispetto a ieri e non hanno detto “stop agli scontrini” con due ore e mezza di anticipo sulla fine dellla serata.
Giocando di anticipo riesco a sedare i bollori gastrici in tempo prima dell’appuntamento clou della serata.
I biglietti soldout da parecchi giorni.
“Volevo Magia” è il loro rientro in pompa magna.
I Verdena tornano sette anni dopo la loro ultima uscita in studio – se escludiamo i brani composti per la colonna sonora di “America Latina” dei Fratelli D’Innocenzo.
Nel mentre diversi progetti alternativi e tre figlie – tra cui due gemelle – per Roberta.
L’attesa è febbrile, fanbase è alla transenna, come è giusto che sia.
Io invece percorro in lungo e in largo l’area antistante al palco, come una pallina da flipper, o – se preferite – una particella di sodio in acqua oligominerale.
Non sono un fan della band di Bergamo, in generale del rock indipendente italiano, ma sono curioso e voglio vedere come se la caveranno dopo il lungo stop.
Forse per anticipare la pioggia prevista, Alberto e Luca Ferrari e Roberta Sammarelli fanno il loro trionfale ingresso alle ventidue, con trenta minuti di anticipo rispetto al previsto.
Li affianca Carlo Maria Toller, polistrumentista bresciano (potenza del rock che unisce Bergamo con Brescia), alle tastiere, all’elettronica e alla seconda chitarra laddove richiesto.
Aprono con ‘Linda e Paul‘ il primo pezzo estratto da “Volevo Magia” e un suono che è rimasto inalterato rispetto al passato, pieno e potente.
A seguire un salto nel passato con ‘Loniterp‘ e ‘Logorrea‘.
La parte del leone la fa il nuovo nato, con otto brani sui diciotto totali in scaletta.
‘Cielo Superacceso‘ è introdotta da un riff ossessivo di Alberto e dalla batteria esplosiva di Luca. Break e stop improvvisi.
Il live scorre tra chitarre incendiate e incendiarie e la voce di Alberto Ferrari graffiata, strumento tra gli strumenti, e annegata all’eccesso nell’ipersaturazione, ammetto in alcuni momenti un po’ forzata.
Non concedono molto alla platea, poche pose e pochi atteggiamenti da star: protagonista è l’essenzialità e la potenza del suono.
I ringraziamenti, asciutti e senza salamelecchi, sono affidati a Roberta.
L’immagine visiva è quella di un monolite sonoro, che orbita come meteora infuocata tra grunge e schizzi di vernice punk e hard.
Arriva la pioggia, non esagerata grazie a Zeus, e accompagna la sghemba e finto melodica ‘Angie‘. ‘Don Calisto‘ è una cavalcata zeppeliniana nel Walhalla al cospetto di Odino.
Alberto Ferrari si diverte a giocare con i loop in chiusura di ‘Sui Ghiacciai‘ e di seguito attaccano ‘Volevo Magia‘, tiratissima, quasi un brano che avrebbero potuto suonare i Dead Kennedys.
‘Il Gulliver‘ è una mini-suite di dieci minuti, mentre ‘Muori Delay‘ suona alle mie orecchie nuovamente Led Zeppelin – quelli di ‘The Ocean‘, ma senza cambio in sette ottavi nel riff.
Il suono è straziante, sensuale e struggente.
La batteria una rullata impazzita e continua, sulla quale si sincronizzano le luci strobo sul palco. Le canzoni sono una tempesta di fulmini che incenerisce.
Un ritorno in grande stile, per la band di Albino il tempo sembra essersi fermato.
Ma questo è anche il rovescio della medaglia.
Il suono è lo stesso di dieci o quindici anni fa: ottimo per i fan, che ritrovano quello che avevano lasciato e non saranno delusi; meno per chi si auspicava una minima evoluzione.
La band non abbandona la zona di confort, precludendosi forse la possibilità di conquistarsi nuovi fan.
Mette in scena uno spettacolo che sembra guardare più al passato che non al futuro.
Volendo far le pulci, è uno spettacolo potente e infuocato che si lascia ascoltare, ma un po’ troppo monocorde: il live ha poche variazioni di intensità, timbro, energia, atmosfera.
Parte al massimo dei giri e arriva al massimo dei giri, sparato lungo un percorso rettilineo a folle velocità: poche sono le deviazioni e le esplorazioni di luoghi e panorami diversi, che potrebbero dare nuova profondità e prospettive alla musica.
La linea melodica della voce di Alberto Ferrari non è distinguibile, lo so, è una scelta stilistica, il marchio di fabbrica che si ritrova anche nei live degli I Hate My Village, ma alla lunga questo può risultare stucchevole e stancare (sfido peraltro un non fan a comprendere i testi delle canzoni).
E, infatti, la durata di un’ora e un quarto, che normalmente bollerei come troppo breve, è quella giusta.
Un’osservazione mi colpisce: per l’impatto e l’intensità travolgente, ci sarebbe dovuto essere un pogo continuo in ogni dove ed invece a scatenarsi è solo la fan base nelle prime file.
Ho la sensazione che per i Verdena valga lo stesso discorso fatto per gli Sleaford Mods: o li innalzi nell’Empireo, o li fai sprofondare nella Geenna.
Ma se ai fan e alla band va bene così la faccio andar bene anche a me, e scopro in me stesso un equilibrio inusuale per un ariete con ascendente in leone.
Intanto la seconda serata finisce con un anticipo di quaranta minuti sull’orario preventivato. Spero di non attendere troppo l’autobus e di rientrare a casa asciutto.
Sarà così: graziato dalle tempeste di fulmini e dalla GTT.
Non avrei sperato tanto.
Un commento su “TOdays Festival 2023 | Day 02: Verdena”