TOdays Festival 2023 | Day 01: Wilco
Torino, un venerdì di fine agosto.
Ore 14.30, 37 gradi, meglio ignorare la percentuale di umidità.
Confuso e barcollante mi trascino sotto i portici di via Po, verso la fermata del 55.
Ore 15, buttato sul letto della stanza in zona Porta Susa, confuso, probabilmente con la febbre e certamente con i sintomi di un principio di congestione.
Bevanda fredda, aria condizionata, il pranzo, il caldo, le ipotesi sono di varia natura.
La tesi è che la mia presenza alla prima giornata del TOdays 2023 è in dubbio.
Una voce mi sussurra: «mio caro, non hai più l’età».
E invece, cara voce, ti dice male: l’età la ho ancora.
Passa qualche ora e mi sento meglio.
Rapida rassettata, reidratazione accompagnata da bustina di integratori ricca di magnesio, potassio e tante altre sostanze che finiscono in -ina e pronto a salire sul 46 fino al Parco Sempione. Alle 19.45 sono allo sPAZIO211.
Ci vuol ben altro.
Il TOdays è sempre quel gran bel posto in cui la musica indipendente e di qualità la fa da protagonista.
Qualità dell’impianto e del suono eccellente, spazio adeguato che consentono la perfetta fruibilità del concerto.
Vuoi guadagnarti la transenna? Puoi farlo senza chiedere prima alla tua banca.
Vuoi riposarti e continuare a godere della musica? Puoi fare anche questo e sederti in uno spazio adiacente all’area del concerto, per giunta riparato da eventuali agenti atmosferici, solleone compreso.
Una sola pecca, ma ne parleremo più avanti.
Causa di forza maggiore ho perso live dei King Hannah, non senza qualche rimpianto, ma sono in tempo per i fuochi d’artificio dei Les Savy Fav.
Da New York, in attività ormai da quasi tre decenni, formazione classica con due chitarre, basso, batteria e voce.
Potrei dilungarmi in analisi e dissertazioni sulla loro musica, una contaminazione di punk, hardcore e una spruzzata di noise, ma senza esagerare per non sacrificare troppo l’ascolto e la “pogabilità”.
Ma non avrebbe senso se non mi soffermassi su quanto successo nella seconda parte del concerto. Tim Harrington, vocalist e frontman, fa passare tutto in secondo piano e ricorda a tutti quanti cosa voglia dire essere rock: oltre le mode, oltre i generi, oltre il tempo, oltre i suoni.
Alto e corpulento, calvo, con i pochi capelli rimasti e la barba di un fosforescente arancione ANAS, sgargiante tunica sacerdotale rossa e blu che vola via rivelando un paio di slip fucsia con fascia bianca alla cintura.
Ma non basta: vola via anche lui giù dal palco e me lo ritrovo a due metri, muso a muso con un cagnolino.
Resterò con il dubbio se abbia davvero bevuto l’acqua dalla sua ciotola.
Poi, per la gioia dei fotografi e seguito da solerti roadies che si assicurano che il cavo del microfono non crei intoppi, inizia una passeggiata di un quarto d’ora tra il pubblico.
Bacia alcuni spettatori, ne abbraccia altri, balla con altri ancora e conclude degnamente la sua performance nella città della Sindone asciugandosi il sudore con la maglietta di un ragazzo.
Il tutto continuando a cantare come se nulla fosse e mentre la band che sul palco suona senza fare una piega.
Si accomiata con un’invocazione a qualcosa che alle mie orecchie suona come un riferimento a qualche pipistrello che evidentemente avrebbe visto volare nella serata torinese.
Esagerato? Sì secondo alcuni, giustamente rock and roll secondo altri.
Intanto mi preoccupo della mia reidratazione, acquistando preventivamente una copiosa scorta di acqua e incontro pezzi del mio cuore torinesi.
Ma è tempo già della band successiva.
I Warhaus sono il progetto parallelo di Marteen Devoldere, già voce dei belgi Balthazar.
Tre album all’attivo, l’ultimo, del novembre 2022, interamente concepito a Palermo, dove l’artista racconta di essersi rifugiato per sublimare e superare la fine di un amore.
Niente di nuovo: la Sicilia fa questo e molto di più.
La musica della band non è una delle più consuete che puoi incontrare sui palchi rock.
Costruita su contaminazioni jazz, funk, blues, post-punk.
Elegante e fatta di vuoti e riempimenti improvvisi.
‘Control‘ ha una ritmica ossessiva scandita da fiammate di trombone.
‘When I Am With You‘ si presenta con suoni quasi seventies con una chitarra ricca di chorus e flanger.
La stessa chitarra che diventa asciutta e scarna in ‘Shadow Play‘, uno dei brani per me più convincenti, con suoni martellanti e dissonanze agrodolci che lambiscono un universo di “frusciantiana” memoria.
Le ritmiche a volte ossessive, a volte morbide.
Fanno capolino violini e tromboni e si creano spazi per improvvisazioni strumentali in cui gli archi giocano con delay e i loop.
Decisamente convincenti e accattivanti le canzoni un po’ più ardite e sperimentali.
Tuttavia, la band lascia poco spazio al naturale sviluppo e alla libera fioritura dei brani, che più di una volta sono troncati in modo eccessivamente brusco.
‘Against The Rich‘ strizza l’occhio a Marc Almond di ‘Mother Fist‘, mentre ‘Time Bomb‘ si sviluppa su un unico accordo e chiude con un muro di suono che senza preavviso si trasforma in una coda di pianoforte e voce.
‘It Had to Be You‘ parte con ritmica caraibica e inserti di trombone sopra una chitarra afro che chiude con una citazione dei Red Hot di ‘Give it Away‘, voluta o meno non ci è dato saperlo.
Il pubblico, come sempre attento e preparato ben oltre la media di quello che normalmente si incontra in giro, ha pareri diversi sulla loro esibizione.
Nel complesso mi sono piaciuti, ma avrebbero potuto osare di più: in alcuni momenti la sensazione è che si limitino a portare a casa il risultato, senza alcuna infamia, ma con meno lode di quanta non ne abbiano nelle corde.
Ed è un peccato perché l’eleganza della loro proposta merita maggior vetrina.
Se il pubblico del TOdays è preparato, l’organizzazione del food lo è un po’ meno.
I due punti di ristoro per il cibo (per birre e acqua la situazione è diversa) non sono sufficienti ad assorbire la richiesta in tempi ragionevoli.
Le attese in coda superano l’ora, al punto che alle ore 22 la cucina di uno degli stand gastronomici è costretta a chiudere per il concreto rischio di non riuscire a smaltire le richieste.
Per le edizioni successive sarebbe necessario aggiungere un terzo punto di ristoro, magari collocandolo all’esterno dell’area finora riservata al festival e dotando di braccialetti – o timbrando – chi dovesse uscirne per esigenze di nutrizione.
In troppi hanno perso quasi per intero alcuni live set e sempre in troppi si sono autoimposti il digiuno perché ciò non accadesse.
Può essere l’occasione per fare nuove e piacevoli amicizie durante la fila, ma non è sempre detto che questo accada.
Per quanto mi riguarda, studio rapidamente il da farsi, vedo un perfetto esempio di organizzazione del lavoro allo stand dei burgers.
I quattro ragazzi che vi lavorano hanno razionalizzato al meglio il processo che va dalla presa dell’ordine alla consegna del panino.
Esterno loro i miei complimenti, li meritano tutti.
Non sarebbero mai stati assunti a una qualsiasi Festa de L’Unità, ma riducono al minimo i tempi di attesa in una situazione che, con altri protagonisti, avrebbe comportato un concreto rischio di perdermi la prima parte del concerto dei Wilco.
Che invece mi godo dall’inizio all’ultimo colpo di batteria.
Il rapporto dei Wilco con Torino è molto stretto.
L’ultima volta della band di Chicago sul palco dello sPAZIO211 è datata 2007, non era ancora il TOdays, ma lo Spaziale Festival.
I racconti dei presenti parlano di leggenda, di un blackout che manda in palla tutto l’impianto e di un concerto diventato necessariamente acustico, con musicisti e pubblico fusi nella creazione di pura magia e coinvolgimento.
Non stupisce allora la grande attesa che accompagna l’esibizione della band di Jeff Tweedy e compagni sul palco del TOdays Festival.
Stavolta il racconto inizia dal dodicesimo brano in scaletta.
Gli onori di copertina vanno allo stratosferico solo di chitarra a conclusione di ‘Impossible Germany‘.
Il brano è di per sé raffinato, ma il diamante incastonato nell’oro è la performance finale di Nels Cline: un solo il cui cantabilità e melodioa la fanno da padrone la cantabilità.
Un solo in cui chiudi gli occhi e pensi che potrebbe andare avanti per dieci minuti senza risultare noioso.
Un solo pensato per prenderti per mano e condurti alla scoperta del segreto che rende la musica magia.
Un solo finalmente al servizio della canzone e lontano anni luce dal virtuosismo fine a sé stesso e bearsi delle ovazioni degli incompetenti.
Basterebbe solo questo per ripagare la mia presenza qui alla periferia nord di Torino, ma il set dei Wilco è molto di più.
A partire dall’apertura con ‘Spiders‘, che trascina il pubblico dentro un pezzo che si dipana lungo un unico accordo, in cui sono benvenute le dissonanze e che prende respiro durante un crescendo fino a un’esplosione finale.
Molto Television con un pizzico di Sonic Youth.
La band gioca con il suono e ne dispone come meglio crede.
Li ascolti – o li guardi – e realizzi come padroneggi qualsiasi linguaggio espressivo e sonorità, senza che questo vada a discapito dell’identità e della riconoscibilità.
Anche i brani che sembrano seguire un percorso ben delineato riservano sorprese.
Pensi di aver capito tutto e improvvisamente invece ti ritrovi in luoghi sonori inaspettati.
È il caso, ad esempio, di ‘I’Am Trying to Break Your Heart‘, una ballad che ti spiazza con il feedback finale di chitarra elettrica e del finale noise.
‘If I Ever Was a Child‘ è una vetta poetica meravigliosa, sussurrata; una carezza di una piuma. Sarà il giro di accordi, la batteria con le spazzole, il controcanto in falsetto, l’espressione del volto di Jeff Tweedy, ma è una folgorazione.
Lo dico da non amante del genere, vi basti questo.
‘Hummingbird‘ con il piano che suona i quarti e le armonie ha richiami al McCartney del periodo di “Revolver”.
Passano dal rock and roll più tirato, al folk più ispirato con la naturalezza dei grandi.
‘Bird of the Tail/Base of the Skull‘ è un’amaca sonora; il gusto per la melodia, atmosfere psichedeliche west coast, un’outro infinita, un viaggio dalle distese desertiche del Nevada che sfumano in un miraggio e si risvegliano in riva al Pacifico.
‘A Shot in the Arm‘ è un altro capolavoro.
Apre con una lampo di synth, sul quale si inserisce un piano arpeggiato.
La melodia sempre protagonista, incalzata da un drumming martellante, in crescendo.
Una progressione dinamica che riempie ed elettrizza, con le chitarre e il piano a salire di volume e a esplodere alla fine.
In chiusura virano decisamente sul classic rock made in USA, con la chitarra e il tremolo di ‘I Got You At the End of the Century‘, impreziosito dal solito capolavoro solistico di Fender Jazzmaster, caldo, pieno, come nella migliore tradizione USA.
Il saluto al pubblico del TOdays è l’ulteriore pennellata hard di ‘Outtasite (Outtamind)‘.
I Wilco sanno spaziare a 360 gradi nell’universo del rock senza lasciare le cose a metà e arrivando dritti al cuore dell’ascoltatore.
Sul palco possono permettersi di fare tutto.
Hanno storie da raccontare, personalità e suono.
Sanno cosa dire, come cantarlo e come suonarlo.
Il loro concerto è un viaggio in trenta anni di rock americano.
Dal country folk al noise punk, all’hard rock e alla psichedelia e spesso questi mondi si toccano o sovrappongono.
Non necessitano di effetti speciali o rivoluzionarie scenografie, la musica è protagonista e basta. Lo raccontano loro stessi in una recente intervista, la band sta bene sul palco si diverte e se la gode.
E si diverte anche il loro tecnico del suono, il più simpatico mai incontrato finora; con lui sorriso a trentadue denti, complimenti e stretta di mano.
Dopo un concerto come questo la risposta alla domanda – «Do You Still Love Rock And Roll?» – che Jeff Tweedy fa in ‘Misunderstood‘ può essere soltanto una.
E io sono così preso dal racconto che mi sono dimenticato di scrivere che il loro prossimo album “Cousin” è in uscita il 29 settembre e che, differentemente da quanto accaduto il giorno precedente a San Mauro Pascoli, il singolo estratto, ‘Evicted‘, che racconta di solitudini e drammi d’amore non è stato inserito nella setlist di stasera.
Lo trovate però già sulle principali piattaforme.
A riportarmi sulla terra arriva la notifica di una diffusa app di messaggistica: i pezzi torinesi del mio cuore mi tolgono l’incombenza – ma potete anche leggere ansia – dell’attesa dell’autobus per il ritorno a casa.
Anche nelle giornate più sofferte Torino sa prendersi cura di me come una mamma premurosa.