TOdays Festival 2022: Primal Scream, Yard Act, DIIV, Arab Strap
TOdays Festival | Day 03
28 agosto 2022
I cumulonembi sono nubi alte fino a diecimila metri.
I cumulonembi sono i principali responsabili delle piogge torrenziali, delle grandinate più distruttive e delle tempeste di fulmini.
La mia fobia di essere incenerito da un fulmine è pari a quella di un sacerdote ateniese che si è dimenticato di sacrificare il vitello quotidiano a Zeus.
Quelli che, visti da Barriera di Milano (che si chiama così ma è un quartiere di Torino), si stagliano sulla cornice delle Alpi Cozie sembrano essere proprio cumulonembi.
Applicando le regole del sillogismo aristotelico è possibile immaginare quale sia il mio stato d’animo mentre scendo dal tram 4 alla fermata Rondissone e mi incammino verso lo sPAZIO211, sede dei concerti del festival.
Bene così.
La fila per entrare è chilometrica, unica pecca di un’organizzazione altrimenti esemplare.
La supero a testa bassa, grazie al pass e con non pochi sensi di colpa e sono nell’area live.
Diversamente da venerdì, è la rivincita dei vecchi reduci del rock, sebbene sia sempre consistente la percentuale di under 25.
L’affluenza è molto alta e alle 18.50, quando salgono sul palco gli Arab Strap, è una discreta impresa trovare una posto davanti al palco.
La band scozzese si dimostra pienamente degna di aprire un festival che punta in alto come il TOdays.
Il frontman Aidan Moffat ha carisma, presenza scenica, personalità ed ironia da vendere.
Mi piace pensarlo come un Peter Murphy gaelico e con una ventina di chili buoni di più, uscito da un pub della contea di Lothian.
Vocalità profonda e oscura che si colloca a metà tra il flusso di coscienza e lo spokenword recitativo e si innesta su un muro di chitarre in piena distorsione valvolare da Marshall.
Riff ostinati e ossessivi, groove di batteria martellante, rinforzata da sequenze di drum machine.
Il suono degli Arab Strap è assenzio che si rovescia e si espande nelle sinapsi.
Gli spettatori che entrano immediatamente e senza fatica nel mood della band, tributandole convinti e coinvolti applausi.
Appuntamento tradizionale con la birra post primo set, e le atmosfere ipnotiche continuano ancora più accentuate con i DIIV.
La band di Brooklyn è sul palco del TOdays a tre anni dall’uscita del suo terzo lavoro, “Deceiver”, che vide la luce dopo le tormentate vicissitudini giudiziarie e sanitarie del loro leader, Zachary Cole Smith.
E per il mio umile parere regalano una performance superlativa.
Recuperano e rielaborano le sonorità new wave, dark, psichedeliche di fine anni ’80, insieme a elementi riconducibili alla lezione dell’indie americano dello stesso periodo che portò al fiorire della scena di Seattle.
Chitarre liquide, eteree che tracciano percorsi verso l’infinito e indefinito.
Brani modali che si snodano lungo un unico accordo.
Suono carico di delay, riverberi, distorsione e flanger.
Il basso ostinato a suonare la stessa nota sugli ottavi.
Le melodie vocali passate nell’harmonizer e nei riverberi, come carezze ammaliatrici e tentatrici, sussurrate, sognanti e dolcissime, passate nell’harmonizer e nei riverberi, che galleggiano su un oceano sonoro obnubilante.
La band pesca a piene mani nello scrigno dello shoegaze, ‘Lush‘ su tutti, ma fa sua anche l’esperienza del krautrock e dei brani più oscuri e psichedelici dei Cure di “Disintegration”.
L’anima americana emerge nei momenti in cui il sogno si fa cattivo ed entrano a farla da padrone le distorsioni delle chitarre.
Il contrasto con il sussurro delle voci è assai accattivante, la lezione dei Dinosaur Jr di J Mascis è stata ben digerita, Fender Jaguar inclusa.
Il loro set è acclamato dal pubblico e al termine della performance compare uno smartphone per un selfie sorridente, con il pubblico dietro festante.
L’ultima cosa che ci si possa aspettare dopo un concerto come il loro ma che ci ricorda che, per quanto torbido, tormentato, estraniante ed estasiante, etereo e allucinatorio, il rock è ancora e sempre resterà un gioco per eterni adolescenti.
E rientrano perfettamente in questa descrizione gli Yard Act.
Arrivano da Leeds per la loro unica data italiana, sulla scia del loro enorme successo avuto in terra natìa, con il loro primo album “The Overload”, uscito a gennaio di quest’anno.
I ragazzi mettono subito in chiaro le cose.
«Siamo un classico power trio, basso, chitarra e batteria, più un frontman alla voce, e vi sbattiamo in faccia tutta l’energia dell’ultima ondata del punk inglese, c’mon guys è arrivato il momento di saltare e pogare».
Prendete i Franz Ferdinand, metteteci testi di denuncia, aggiungete chitarre rabbiose quanto i testi, se non di più, e un frontman irriverente e cazzaro al punto giusto, che tra un pezzo e l’altro racconta aneddoti e avventure con i fan durante una visita al museo e al quale alla fine scappa un “ti amo” rivolto al pubblico.
Questi sono gli Yard Act, che confermano che la ricetta giusta per lasciare un segno nel rock è semplicemente crederci e dare tutto. Sentiremo sicuramente parlare di loro nei prossimi anni
L’attesa sale.
È inutile nascondere che una gran parte del pubblico presente è qui per i Primal Scream e per la celebrazione dal vivo, come riportato nelle note informative del festival, del trentennale del loro album “Screamadelica”.
Pietra miliare del rock inglese, primo riuscitissimo tentativo di incontro tra il rock e la nascente cultura dei rave, della techno, dell’house e della dance.
Resteranno, anzi resteremo delusi.
Già, nel setlist della band di Glasgow è presente un solo brano estratto dal disco e la celebrazione si limita all’outfit del frontman, ma lo si scoprirà solo alla fine.
Aprono con ‘Swastika Eyes’, un classico del 1999 tratto da “XTRMNTR”.
I bassi pompati al massimo dal mixer aprono le viscere, la Les Paul di Andrew Innes esplode di feedback davanti ai Marshall ma…
…ma il live non decolla.
La band si limita a fare il compitino pulito e nel migliore del modi.
Nulla più.
Bobby Gillespie appare isolato, staccato dal resto dei compagni, spaesato su uno stage che non domina.
E il pubblico risponde di conseguenza: qualche applauso, qualche urlo qua e là, ma senza troppa convinzione.
Anche il loro personale ricordo di Mark Lanegan, ‘Deep Hit of Morning Sun‘, brano del 2002, riproposto alcuni anni dopo in una cover version assai apprezzata dall’ex Screaming Trees, non imprime una svolta emotiva alla loro esibizione.
Cosa che finalmente sembra accadere con ‘Movin’ on Up‘, il brano manifesto d’apertura di “Screamadelica”.
Riff stonesiani, organo hammond gospel, piano che più rock non si puo.
È il fottuto rock and roll: whisky, polvere, fumo, sesso, puzza di sudore e di Keith Richards.
Ma dura poco, dopo tre quarti d’ora o poco più la band saluta e lascia il palco.
Poi improvvisamente succede qualcosa, i tecnici del suono e delle luci vengono bloccati per un bis non previsto dalla scaletta.
Terminano con una citazione iniziale del coro di ‘Sympathy for the Devil‘ che introduce la non programmata ‘Loaded‘, versione remixata e presente su “Screamadelica”, di ‘I’m Losing More Than I’ll Ever Have‘, loro brano del 1989.
La durata del concerto arriva così intorno ai 50 minuti; abbastanza per contenere il livello di incazzatura dei presenti, ma non per fare uscire loro da trionfatori.
Va in archivio così la tre giorni del festival torinese, che si conferma manifestazione con cartellone di alto livello, attenta a intercettare nuove correnti e tendenze del mondo del rock.
E non può che tornare un pizzico, forse anche più, di ottimismo sullo stato di salute di un rock che alcuni continuano a dare per morto o agonizzante.
Se c’è qualcosa che ci si porta dietro da queste giornate è che il rock è ancora bellezza da donare a un pubblico affamato di qualità ed emozioni pronto ad accoglierla.
Un pubblico da rispettare e da non trattare, come talvolta accade nel mondo dei concerti, dei media musicali e dei discografici, come una mucca da mungere o, se preferite, una scimmia in cattività alla quale lanciare noccioline.
Questo è.
Dimenticavo: alla fine è caduta solo qualche goccia, nessun temporale e niente fulmini.