Thurston Moore, performer multisensoriale
Sono un tipo tradizionalista e fedele alla mia ansia: arrivo al Monk con quattro ore di anticipo.
Gli ultimi reduci del pranzo della domenica stramazzano chiedendo l’ultimo amaro e sul campo da basket dell’area giochi, i papà più temerari azzardano entrate in terzo tempo davanti ai loro pargoli.
Avere modi gentili ed una faccia che, a detta dei più, risulta simpatica, mi consente in alcuni casi piccoli privilegi inaspettati.
È quindi grazie alla gentilezza dei responsabili che mi godo la prima birra pomeridiana nell’area adiacente alla sala concerti.
Giusto in tempo per vedere la crew a cinque metri da me che scarica il furgone con gli strumenti, giusto il tempo di gustarmi Thurston Moore, in camicia viola e calzini intonati (deduco non sia superstizioso, anche se per salire sul palco si cambierà) far capolino dalla sala e sedersi a due metri da me, per curare personalmente il maquillage della sua storica Jazzmaster e cambiarne le corde.
Nel mentre, dentro inizia il soundcheck – prima i singoli strumenti, poi tutta la band.
E qui il primo brivido della giornata, ma ne riparleremo più tardi.
Il tempo per una seconda birra, una coppia che litiga al bancone, un’occhiata alla Roma che non sblocca il risultato contro la Sampdoria e arriva l’ok per l’accesso alla sala concerti.
Guadagno la prima fila e prendo atto con gioia che la mia fobia della folla è ormai un ricordo.
Sul palco fanno la parte del leone un numero imprecisato di chitarre e colpiscono le ghirlande di fiori avvolte intorno alle aste dei microfoni.
Sotto l’ampli di Thurston Moore campeggia un simbolo della pace in polvere dorata su bandiera nera.
L’opening è affidato a Jayan Bertrand, vocalist e chitarrista dei Seafoam Walls, trio di Miami che miscela indie rock, dream pop, soul e jazz.
Si presenta con chitarra, loop station e voce passata in pitch shifter e harmonizer.
È una formula collaudata dai Bon Iver in poi, che qui si incastra su un incastro ritmico in tempi dispari e composti.
Da dieci e lode i potenziometri colorati sulla sua Epiphone.
Non so come mai, ma in qualche pezzo mi ricorda il Cobain più intimista, oscuro e introspettivo; riparleremo più tardi anche di questo.
Proposta interessante e ben accolta dal pubblico.
Timidissimo, sembra non credere nemmeno lui a quello che gli sta capitando.
Il picco è un solo di tapping che non vedevo fare dal 1993.
Alle 20.15 è la volta di Thurston Moore, con in mano la scaletta del live scritta su carta per alimenti.
Insieme a lui i due musicisti che lo accompagnano da dieci anni, in studio e sui palchi: Deb Googe dei My Bloody Valentine al basso, James Sedwards alla chitarra.
A questi si aggiungono Jon Leidecker dei Negativland all’elettronica e Jem Doulton alla batteria.
Il brano di apertura è ‘Hypnogram‘, singolo uscito nel febbraio di quest’anno, presumibile anticipazione di un prossimo album. Inizia con un’esplosione di frequenze basse, potenti e avvolgenti, seguita da ‘Hashish‘.
L’ex Sonic Youth chiude gli occhi si immerge completamente nel suono.
I brani prendono forma lentamente, emergendo da un magma improvvisativo rarefatto e sognante, in costante tensione, per poi deflagrare come esplosioni di supernove sonore.
È poi il turno di ‘Siren‘, altro brano estratto, come quasi tutti quelli che eseguirà nella serata, da “By The Fire”, lavoro uscito nel 2020 e rimasto per due anni confinato nel limbo pandemico.
Un disco in cui marcati sono echi e richiami al mondo Sonic Youth.
Il suono costruisce la scena, è una performance multisensoriale.
I musicisti sono pietrificati in un’orgia di feedback e noise che esonda, trascina, divora e al tempo stesso accarezza, per poi, come un fiume all’estuario, spiazzare e ritrovare accoglienza nel grande mare della forma canzone.
‘Venus‘ è annunciata da un’intro con chitarre dissonanti dal sustain infinito, sulle quali si innesta una cassa dritta in quattro, ossessiva e martellante.
Siamo all’interno di un rave impazzito e tribale, in cui il suono si espande in ogni direzione, caricandosi di una tensione verso l’alto, come una gigantesca montagna russa, la cui salita sembra non finire mai, per poi lanciarsi a capofitto in una centrifuga vorticosa.
In questo maelstrom i feedback dissonanti delle chitarre si ritrovano dal nulla su un unisono o su intervalli di terza maggiore o quinta giusta, per poi prendere nuovamente il volo in una improvvisazione in cui ogni possibilità musicale viene esplorata e portata al suo limite.
Ma badate bene, con la cassa sempre in quattro.
Con il pubblico definitivamente rapito e delirante, arriva il momento del saluto a Roma, («ho messo Roma come ultima data del tour così posso fermarmi qualche giorno in vacanza a godermela») e di un appello alla libertà in cui ricorda che nessuno può dirci cosa fare del nostro corpo.
‘Temptation Inside Your Heart‘ è un brano omaggio ai Vevet Underground e a Lou Reed, «un animale del rock and roll».
Con ‘Cantaloupe‘ ritorna nuovamente a “By The Fire”.
Il muro di chitarre distorte, la batteria che picchia indiavolata, lo sfruttare ogni minima risonanza dei legni della chitarra, il riempire di suono tutto lo spazio possibile, fino alla più impercettibile vibrazione della colonna d’aria, ci ricorda che Nirvana, Dinosaur Jr e compagnia bella, senza il signor Moore sarebbero certamente esistiti, ma probabilmente non avrebbero mai suonato nel modo in cui li abbiamo ascoltati.
La chiusura della prima parte è affidata ad ‘Aphrodite‘, unica canzone proposta da “Rock and Roll Consciousness”, del 2017, in cui da momenti di concitazione noise e punk si passa all’emotività rarefatta di suoni dilatati e psichedelici, con interventi di James Sedwards al clarinetto e vuoti costruiti intorno al silenzio, in momenti in cui nella sala si potrebbe sentire cadere anche un solo spillo.
Il bis non si fa attendere e con l’inconfondibile attacco di ‘All Apologies‘ dei Nirvana, il pubblico prova lo stesso brivido esperito dal sottoscritto durante il soundcheck.
Una versione asciutta, fedele all’originale, senza colpi di scena o variazioni di alcun tipo.
A cantarla è chiamato Jayan Bertrand: realizzo che associarlo al Kurt Cobain più introverso e intimista non era stato proprio un azzardo.
Dulcis in fundo il gesto che rivela la sua grandezza.
Prima chiede al responsabile di palco del Monk se vi sia il tempo per suonare ancora un pezzo, poi chiede scusa al pubblico per il fatto di dover ancora una volta verificare l’accordatura della chitarra, spiegando di averne cambiato le corde poche ore prima.
E chiude con ‘Locomotives‘, 15 minuti pieni di qualsiasi cosa: elettronica, psichedelia, sonorità kraut rock, lo tsunami noise che confluisce in una lunga coda eterea e più melodica, con l’ultimo sussulto eruttivo di chitarre distorte.
E quando, a fine concerto, scopro che tra i papà e i bambini che sul campo da basket tentavano i tiri da tre si era infiltrato proprio Thurston Joseph Moore, mi dico che posso tornare a casa felice.