The White Buffalo: il cuore nobile dell’America
Al Largo Venue rock intimo, intenso e potente della band californiana
Il Bufalo Bianco è un simbolo sacro per le popolazioni native americane. The White Buffalo è anche il nome del progetto cantautorale di Jake Smith, nativo dell’Oregon e californiano d’adozione.
Roma, 26 Ottobre 2024 | Ph. © Giulio Paravani
“Diciannove generazioni fa il bellissimo spirito a cui ora ci riferiamo come Donna del Vitello del Bufalo Bianco portò la Sacra C’anupa al nostro Popolo. Insegnò al Popolo i Sette Riti Sacri e come camminare sulla Madre Terra in modo sacro. […]. Mentre se ne andava, si trasformò in un giovane e bellissimo bufalo bianco e poi camminò sulla collina e scomparve dalla vista. […] La persona che fuma la pipa sacra raggiunge l’unione con tutti gli Esseri Fumando questa C’anupa, ed entrerà in contatto personale diretto con il Grande Mistero.”
A Roma il sabato sera è raramente utilizzato per i concerti ed è facile comprendere perché. Il traffico e le code mi impongono uno stile di guida di cui è bene che il sindaco rimanga all’oscuro. Arrivo a fatica presso il luogo del concerto, complice anche una sindrome influenzale. Per fortuna, velocissime sono le procedure di accredito, grazie soprattutto alla gentilezza e alla disponibilità degli addetti alla security ai quali va il mio pubblico ringraziamento.
Ad aprire sono gli L. A. Edwards, band californiana che prende il nome, ma anche il cognome, dal suo vocalist e frontman Luke Andrew Edwards. Suoni classici della West Coast. I primi brani country-folk non sono esattamente il mio pane quotidiano, ma riescono comunque ad acquietare i miei bollori dopo l’arrivo frenetico al Largo Venue. Molto più affini e da me apprezzate sono altre cose che si spostano più verso il surf. Il vibrato e i tremoli delle chitarre stuzzicano quanto basta. Canzoni più “tarantiniane”, epurate però da quel germe di violenza psicopatica e dal senso di arroganza che ti puoi aspettare da un certo rock made in U.S.A. Non faccio in tempo a lodare le perfette armonie dei cori, che colgo intonazioni non proprio rispettose dei rapporti armonici. Ma si sa, che sono indulgente; scrivo senza condannare.
Complessivamente non sono male; forse un po’ stucchevoli le ballad folk, ma nei pezzi più tirati ed elettrici dimostrano verve e qualche soluzione degna di nota. Interessanti alcune code dei pezzi in cui dialogano la batteria ed un synth con suoni anni Ottanta. In chiusura fa capolino il pop-punk americano degli anni Novanta che chiama convinti applausi da parte del pubblico.
Non faranno mai la storia della musica, né ti cambiano la vita, ma nel giusto contesto e con la giusta disposizione d’animo si ascoltano e coinvolgono; ad avercene di band così. Certo, lo stacco con i Police, diffusi nel locale durante il cambio palco, è un po’ impietoso. Il tempo di realizzare che Chuck Berry rende sexy qualsiasi donna che inizi a ondeggiare sulle sue note e di individuare il sosia di Dave Navarro in sala, che sale sul palco The White Buffalo: ovvero, il suddetto Jake Smith, e i fidi Matt Lynott alla batteria e il polistrumentista Christopher Hoffee alla chitarra elettrica, basso e tastiere.
Otto lavori alle spalle e una manciata di EP, notorietà giunta anche grazie ad alcune serie televisive. Dalle nostre parti si affaccia la prima volta il 21 maggio 2023, quando apre il live al Circo Massimo di un certo Bruce Springsteen. Per il principio della proprietà transitiva del fan, chi apre il concerto del proprio beniamino viene automaticamente innalzato sull’altare accanto ad esso. Comprensibile il mio temere di fronteggiare i classici problemi dei fan ai concerti. Primo tra tutti; cellulari in bella mostra, che infatti durante il primo pezzo si sollevano in gran numero. Attendo l’arrivo del peggio, ma mi accorgo invece che la partecipazione è calorosa ma sana, orecchie e cuori aperti, ma soprattutto bocche chiuse. A parlare è la musica e chi stasera è accorso qui al Largo Venue dimostra di averlo ben chiaro. Sollievo. Imparerò in futuro a essere meno snob.
Nei primi pezzi, quello dei The White Buffalo è il classico rock americano; suoni caldi, cavalcate acustiche, tinteggiature country in alcuni momenti. Ottimo lavoro delle chitarre, batteria potente con i bassi della cassa pompati a tutta; o ti piace, oppure realizzi presto di aver sbagliato serata. Dopo i primi pezzi a me mette voglia di hamburger, t-bone steak a cottura poco più che al sangue e ribs. Inizialmente immagino un barbecue davanti a qualche villetta, ma presto quest’immagine lascerà spazio ad altro. Per ora non è musica per vegetariani, metafora che volevo giocarmi con la band di apertura, prima di scoprire che Luke Andrew Edwards gestisce un marchio di salse e condimenti vegani.
Poi la prima scossa: ‘Into The Fire’ è una ballad lirica e intensa. Intima e coinvolgente l’apertura solo voce e chitarra acustica, che strada facendo apre spazi a maggiore respiro, grazie anche a una chitarra ricca di riverbero. Sulla falsariga ‘This Year’, pezzo con grandi dinamiche e un crescendo che fa tremare le aste della batteria e renderà necessario l’intervento di un tecnico per sostituire l’asta di uno dei microfoni. Nel mentre, Jake ci racconta della nonna romana e del ricordo di lei e dei suoi racconti che lo pervase, quando in apertura al Boss quando si ritrovò davanti il Circo Massimo e i Fori. C’è spazio anche per il più classico degli Happy Birthday rivolto a Christopher Hoffee, fresco di compleanno.
I musicisti sul palco danno l’idea di divertirsi molto e di fare la cosa che più amano nella vita. Sono solo in tre, ma il suono esce maestoso e pieno, come se a suonare fossero il doppio. Estroversi e gioviali, indossano outfit e facce da E Street Band. La sensazione è di stare tra vecchi amici e Lynott e Hoffee si tratterranno con amabilità a salutare e parlare con i fan alla fine dello show. È quest’autenticità, diretta, immediata a nobilitare la musica dei White Buffalo e a coinvolgere ed emozionare le ottocento persone che hanno sfidato il sabato romano per riempire ogni spazio del Largo Venue.
Le storie raccontate sono quelle dell’America degli emarginati, degli abbandonati e dei dimenticati. Strade polverose, stazioni di servizio abbandonate, uomini che vanno incontro al loro destino. La voce di Jake Smith è profonda, calda e vibrante; l’accostamento a Eddie Vedder più che a Bruce Springsteen è quanto mai pertinente. Ascolti ‘Last Call to Heaven’ e scopri che Smith non ha nulla da invidiare all’autore di “Into The Wild”. Ricami e svisate di chitarra elettrica e riverberi aprono spazi infiniti da percorrere a piedi e in solitaria
Chiudi gli occhi e sei in viaggio a piedi nell’ovest. Birre, bourbon e sigarette assaporate sul ciglio di strade malridotte e assolate; hotel che sono ricoveri per chi scappa dal suo stesso nome, sguardi oltre l’orizzonte là dove il sole cade dietro le cime delle Rocky Mountains o si disperde nell’infinità del deserto. ‘Join the Murder’ è un altro brano oscuro e intenso, quando mi accorgo tutto il pubblico canta il ritornello insieme a Jake. Davanti a me una coppia che pomicia come sedicenni.
Ed è anche l’America disperata di ‘Oh Darlin’ What I Have Done”, uno shuffle in si minore, con una batteria essenziale in ritmo ternario. L’urlo del ritornello è pura rabbia rivolta verso sé stesso. Il groove è lo stesso di ‘Stunt Driver’, con Matt Lynott indiavolato a chiudere e rilanciare il pezzo con fill infiniti. ‘I Got You’ è un altro brano vedderiano, mentre ‘The Whistler’, acclamata dai presenti, è un’altra esplosione di rabbia, mentre si incendiano le chitarre di Christopher Hoffee.
La chiusura è ‘The Pilot’, pezzo quasi folk-punk irlandese. Corsa sfrenata con mille mani, forse più, che si alzano per tenere il tempo. Il pubblico non accenna ad abbandonare la sala. Cosa che fa anche Jake Smith, inserendo due bis non previsti in scaletta. Il primo, solo voce e chitarra acustica, è l’intima e vibrante ‘Highawayman”, omaggio al cantautore dell’Oklahoma Jimmy Webb. Il secondo, è una ripresa di ‘The Pilot’ ancor più carica di potenza ed energia.
Quella dei The White Buffalo è l’America di chi continua a prendere pugni in faccia e conosce l’acre e secco sapore della terra in bocca. Gli USA di Henry Charles Bukowsky e non di Charlton Heston. Dolori, solitudini nelle quali ci specchiamo. L’America che ritrova dignità nella nobiltà d’animo di coloro che essa stessa chiama perdenti. Con i più fortunati che scelgono la sola via d’uscita che non tradisce mai e ti lascia vivo: il rock and roll. Tutto sommato è andata bene anche a me.