The Pop Group live a Segrate (MI): l’anima uccide il pop
Tre date in Italia per The Pop Group, le prime dopo la reunion del 2010 a trent’anni di distanza dallo scioglimento.
Quello del 9 febbraio al Circolo Magnolia di Segrate è a suo modo un appuntamento storico con una band la cui vita effettiva è stata alquanto breve ma intensa, e le cui influenze hanno attecchito nella musica dei decenni a seguire. Si formano a Bristol, in Inghilterra, nel 1977, producono due dischi prima di separarsi nel 1981, poi nel 2010 il cantante Mark Stewart raduna attorno a sé buona parte della formazione originale e la loro carriera ricomincia. Altri due album, una ritrovata stabilità e ora finalmente li possiamo vedere su un palco a casa nostra.
In apertura Stromboli, un uomo solo sul palco munito di una chitarra e una consolle; il resto lo fanno le luci, a corredo di un suono elettronico, che possiamo etichettare come noise, come drone, o un po’ come ci pare in realtà. È in fondo il bello di questi generi di frontiera, si prestano alle interpretazioni di ciascuno e inseguono le sfumature dell’orecchio umano.
Il palco secondario del Magnolia è una cornice suggestiva, che mette il pubblico a contatto con il gruppo in uno spazio raccolto, ricreando una situazione da piccolo club. Una platea selezionata di reduci delle rivoluzioni musicali alla fine di un tumultuoso decennio, mescolati a giovani cultori postumi di questa storica ondata somigliante a uno tsunami, accolgono in queste condizioni The Pop Group. Ci si trova così davanti a un distinto signore incappottato, dalla stazza notevole e dalla faccia da matto, che inizia subito a darci dentro col microfono. Già a metà del primo pezzo, Mark Stewart si toglie il cappotto, estrae di tasca un fazzoletto e si asciuga il sudore, e non è solamente colpa delle luci basse e ravvicinate.
Cosa c’è in questo inizio: loop ipnotici, un giro di basso magnetico, distorsioni a macchia di leopardo e una voce corposa che periodicamente si trascina in grida quasi inquietanti. Si spostano poi su un suono ancheggiante, badilate di groove e innesti di organo, e suoni sintetizzati e artificiali che fanno la loro apparizione a spot. Sfoderano la linea di basso che ti fotte, The Pop Group sono a loro modo figli degli anni 70 pieni, ma una seconda voce che stona e si porta fuori tempo di proposito mette la firma punk su alcuni pezzi.
Con ‘We are all prostitutes‘, prendono la disco e ci costruiscono sopra il punk, edificando un ponte ideale tra due decenni, gli ammiccanti anni 70 e gli inquieti anni 80. Nulla che all’epoca non facesse già la new wave, ma riproposto con suoni più scarni e meno pretenziosi. L’apice della follia di The Pop Group viene toccato quando Mark Stewart piglia il groove e ci urla addosso, una follia cupa e dalle sfumature dark. Il set viene chiuso col solito giro che non dà scampo e non concede sosta, e lo sguardo severo e burbero del frontman, un Walter Matthau particolarmente ispirato, che ci osserva mentre ci chiede “are you evil?”.
L’encore è ancora una crasi tra mondi diversi, il plot non si può discostare molto dal tema principale. La chiusura è ‘We are time‘, un pezzo del 1979 che sembra arrivare da almeno quindici anni dopo, una chitarra fatalmente rock che a molti gruppi dev’essere rimasta particolarmente impressa, e un finale accelerato e impennato come il rettilineo di arrivo di un gran premio della MotoGP. Ascoltare The Pop Group per capire molti altri gruppi, ben più pop(olari), è una buona sintesi e la chiave di lettura di un concerto senza una vera dimensione temporale.
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