The Murder Capital, non solo punk
Poche certezze nella vita.
Una di queste è la pioggia che accompagna i miei concerti al Largo Venue.
Ma grazie al meteo, stasera l’organizzazione del bistrot annesso al locale sposta il mio tavolo nella zona riservata alla band e tutta la loro crew che li accompagna nel loro tour europeo.
Gli eroi hanno una caratteristica particolare che li differenzia da noi comuni mortali: più ti avvicini, più diventano piccoli davanti ai tuoi occhi.
In questo caso il discorso è strettamente legato all’età.
I The Murder Capital sono più cuccioli e teneri di quanto immaginassi e vedere che si sono portati in tour le loro fidanzate mi fa capire che siano al loro primo grande tour lontano da casa.
O forse che davvero la Gen Z è diversa da noi e cambierà il mondo.
La tavolata è numerosa; arrivano amatriciane, taglieri e funghi porcini senza soluzione di continuità.
I ragazzi hanno un comportamento impeccabile, a conferma che, contrariamente a quanto si favoleggi, non c’è nulla di più sereno e tranquillo di una rock band fuori dal palco.
Il concerto è sold out da diversi giorni ed è piacevole sorpresa per una città come Roma, solitamente pigra e scettica verso le proposte di alternative rock.
Segno di cambiamento? Vedremo.
Intanto mi godo la sala riempirsi sempre più per The Murder Capital.
James McGovern (voce), Damien Tuit (chitarra), Cathal Roper (chitarra), Gabriel Pascal Blake (basso) e Diarmuid Brennan (batteria) provengono tutti da diverse zone dell’Irlanda ma si incontrano a Dublino. Pubblicano il primo lavoro nel 2019, “When I Have Fears”, che si avvale della produzione di un mostro sacro come Flood.
È la nuova ondata post-punk irlandese, con capostipiti i Fontaines D.C., dichiaratamente ispiratori dei nostri.
Poi la pandemia e il duro momento di ripresa.
La rinascita è il concetto cardine intorno al quale sviluppano “Gigi’s Recovery”, seconda prova in studio, uscito a inizio 2023.
Anche in questo caso con un mostro sacro della produzione quale John Congleton.
Insomma, le aspettative sono alte e la curiosità non è da meno.
Apre Soak, cantautrice dall’Irlanda del Nord.
Non so se possa dipendere dalla provenienza geografica, ma trovo che le voci femminili cresciute nel paese del trifoglio stiano in piedi da sole.
Potrei stare ore ad ascoltarle, anche senza alcun accompagnamento strumentale.
Figuriamoci se appoggiato sul caldo suono degli humbuckers di una Gibson semicacustica che ne esaltano espressività e personalità.
Un Irish coffee sorseggiato nel faro dell’isola di Rathlin, al calar del sole di un giorno qualsiasi di dicembre davanti al Mare del Nord, queste sono le sensazioni che emergono ascoltando la sua musica.
Poi è il tempo del cambio palco e arrivano gli headliners della serata.
Ad aprire è ‘Heart in The Hole‘, il nuovo singolo uscito il 27 settembre (la vita è fatta di coincidenze che tali non sono e scopriremo alla fine perché).
Fin dall’apertura il pezzo galleggia sul filo di una tensione pronta ad esplodere senza preavviso.
Il timbro baritonale e profondo della voce di McGovern scaturisce dalla profondità e dai recessi insondabili del tuo inconscio e risuona dentro l’anima come un tam-tam cinese.
‘More is Less‘, è la prima scarica di adrenalina a base di feedback e di punk travolgente.
Il pubblico entra subito in sintonia con la band e risponde come meglio non potrebbe ai richiami del frontman James McGovern, al quale basta un gesto per accendere e scatenare il primo pogo della serata.
Il primo pezzo estratto da “Gigi’s Recovery” è ‘Return My Head‘, qualche schitarrata stile Fontaines D.C. con il loro tocco, rappresentato da inserti di synth sui ritornelli.
Ma è con ‘For Everything‘ che il live apre i motori a tutta e decolla definitivamente.
McGovern trascina i presenti durante l’intro, prima dell’esplosione.
La canzone si snoda lungo rullate ininterrotte e all’ultimo respiro di batterie su timpano, cassa e rullante e chitarre rumorose e perse in ettolitri di feedback.
Diarmuid alla batteria è mostruoso e inarrestabile anche in ‘Green & Blue‘, brano dai toni molto più oscuri, con atmosfere quasi Siouxie o alla Peter Murphy.
Il primo momento di cambio registro della serata si ha con la title track del disco uscito a inizio 2023.
‘Gigi’s Recovery‘ è un brano di atmosfera: Damien Tuit utilizza l’e-bow sulla chitarra, mentre Diarmuid Brennan dimostra di non esser solo una macchina pestapelli con raffinatezze sui piatti.
Raccontano il disco come un lavoro di «introspezione e discesa dentro noi stessi»: oscurità, sofferenza, dolore e liberazione finale – una vera e propria guarigione – con outro quasi shoegaze.
Ciliegina sulla torta un «bono» tutto dedicato a McGovern da parte di una gentile fanciulla che non viene peraltro raccolto dal diretto interessato.
‘The Lie Becomes the Self‘ è un altro brano intenso, crepuscolare e malinconico, a tratti anche sperimentale.
È evidente il tentativo – riuscitissimo – di trovare una precisa direzione, identità e riconoscibilità per il loro suono.
In ‘Slowdance I & II‘ fanno capolino i Pink Floyd di “Ummagumma” ed “Echoes”.
Effetti larsen e delay su delay che si appoggiano su un incedere ossessivo di basso, tutto termina in una lunga coda lancinante e tiratissima alla quale si aggancia ‘The Stars‘, martellante e nera sequenza electro industrial.
L’accostamento che parte della critica ha fatto con i Joy Division non è peregrino: se qualcuno avesse ancora qualche dubbio ecco ‘Crying‘ a confermarlo. Ritornano gli e-bow a conferire sacralità e tensione e a preannunciare un altro viaggio nelle profondità umane.
Un’immersione nelle correnti dell’inconscio ed eviscerandone i contenuti più oscuri e terribili, aggirando censure e meccanismi di difesa.
‘Ethel‘ è il risalire verso il cielo delle stelle fisse, annunciato con apertura di campane.
Le chitarre sotto accompagnano un canto più melodico, le luci del palco passano dal blu-violetto al giallo-arancio.
Ma dura il tempo di un battito d’ali: le sfumature ombrose ritornano mentre un mazzo di rose appare tra le mani di McGovern.
Al frontman basta un semplice gesto per fermare i respiri di quasi mille persone e, in un silenzio religioso, lanciare una alla volta le rose al pubblico.
‘On Twisted Ground‘ è il momento più lirico, toccante, intenso e carico di amore dell’intero concerto, scritta in memoria di un loro amico che decise di togliersi la vita.
Il basso di Pascal Blake suona un accordo maggiore e sostiene una melodia che si colora di un tradizionale celtico.
Entra un cuscino di chitarre dove appoggiare la testa, chiudere gli occhi e riposare: una ninna nanna di speranza per chi è sopravvissuto, poi entrano le chitarre a tappeto e, se chiudessi gli occhi, potrei anche immaginare la presenza di Johnny Greenwood a suonare l’Onde Martenot durante ‘How to Disappear Completely‘.
Il lavoro sul suono delle chitarre lascia senza fiato.
‘A Thousand Lives‘ si regge su un arpeggio di chitarra che svanisce, poi ritorna per poi svanire di nuovo, con non comune ricchezza timbrica e dinamica e prepara il pubblico alla chiusura con il botto.
Ancora una volta, a McGovern basta gesto per far aprire lo spazio sottopalco.
La batteria torna indemoniata a rullare inesorabile sulle pelli e con ‘Don’t Cling to Life‘ si scatena un pogo che mi fa stimare ancor di più i giovani d’oggi.
Potrebbe anche finire così, penso di aver visto tutto; mi sbaglio.
Ricordate le coincidenze?
Il loro singolo è uscito il 27 settembre, che a Roma, da diversi anni, non è un giorno qualsiasi.
Non so se i The Murder Capital lo sappiano, ma sul palco compare una maglietta con il numero 10 e un nome dietro le spalle: McGovern la indossa senza indugio e si lancia in uno stage diving rituale e liberatorio, mentre ‘Feeling Fades‘ turbina e intorno tutto impazza.
Consapevoli, musicalmente preparati, padroni della scena e del suono: potrei terminare qui il mio racconto della performance dei The Murder Capital.
Semmai ce ne fosse stato bisogno, si è avuta ancora conferma che l’invenzione e l’apposizione di etichette di genere alla musica è utile a chi scrive, ma rappresenta un’omologazione e appiattimento del lavoro di band originali e creative come quella dei ragazzi irlandesi ammirati stasera.
La band ha sempre dichiarato di non identificarsi in nessun genere o corrente, ma di avere ispirazioni e ascolti che pescano in mondi diversi tra loro e la serata di Roma non fa altro che confermarlo.
Passano indifferentemente da mondi sonori inequivocabilmente punk a situazioni più oscure, sperimentali, introspettive, oltre le schitarrate potenti o i riff accattivanti.
Tanto di cappello al lavoro di ricerca e sperimentazione sui suoni dei due chitarristi: Damien Tuit, che espande oltre ogni misura le possibilità timbriche dello strumento, e Cathal Roper, all’occorrenza anche alle tastiere e al piano elettrico, e presumibilmente di impostazione jazzistica vista l’imbracciatura alta della chitarra.
Gabriel Pascal Blake al basso è fondamentale punto di riferimento per il suono della band e si incastra alla perfezione con il fenomeno che è Diarmuid Brennan alla batteria.
In ultimo, il carisma innato di James McGovern, in grado di prendersi scena e pubblico senza atteggiamenti da funambolo o da fenomeno.
Infine, sold out a Roma per una band irlandese di alternative rock: vuoi vedere che gli autisti dei tour bus aggiungano sempre più spesso il Raccordo Anulare nei loro navigatori oltre alle tangenziali di Milano e Bologna?