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The Cure live a Assago (MI): tinte forti e tinte pastello

Cinque date in Italia e cinque sold out per il tour 2016: The Cure funzionano ancora, riempiono le più grandi arene al chiuso e smuovono le folle. Nella data più dark dell’anno, il 2 novembre, si chiude al Forum di Assago la parentesi autunnale italica di Robert Smith e compagnia: indossiamo la nostra t-shirt nera preferita, e andiamo a vedere che succede.

Far iniziare un gruppo spalla alle 19 di un giorno feriale, in una location dalla logistica non troppo felice come il Mediolanum Forum, significa mettere in atto un sacrificio umano. Quando la vittima è un nome del calibro di The Twilight Sad, il peccato è pure doppio e la scelta di farli suonare mezz’ora secca è altrettanto discutibile. Ci tenevo a vederli, ma il prevedibilissimo traffico, le code per il parcheggio e la malasorte mi hanno concesso un unico brano. Risultato: grande giramento di scatole, il suono vibrato di The Twilight Sad, la voce particolare e la teatralità di James Graham hanno lasciato il segno. Da rivedere assolutamente in situazioni più idonee.

Avrei potuto cercare le setlist delle date precedenti, ma non ho voluto farlo – per fortuna, col senno di poi- perché con tredici album in studio alle spalle, innumerevoli successi e ancor più numerosi pezzi meno noti, la scaletta di un concerto dei The Cure è una sorta di lotteria, sarebbe uno spreco rovinarsi il gusto della sorpresa. Sorpresa che all’inizio stenta ad arrivare, perché dopo l’apertura a tinte buie di ‘Out of this world‘ ci si butta subito sui pezzoni che tutti amano e tutti desiderano, andando comunque a pescare dal lato oscuro della discografia. Sul palco tutti impassibili nell’esecuzione di ‘Pictures of you‘ e ‘Lullaby‘, tutti eccetto Simon Gallup che si muove a destra e sinistra come un invasato, probabilmente caricato dalla somiglianza fisionomica e tricotica con Luis Figo.

Con ‘All I want‘ troviamo una piccola perla, c’è il suono cupo e pieno dei The Cure, c’è la voce di Robert Smith che va addirittura oltre, c’è tutto quello che serve per rendere giustizia alla propria storia di band epocale. Certo che a vederli fanno sorridere, il capobranco si ispira un po’ a Katia Ricciarelli nel taglio degli abiti, impedendoci di capire se rispetto all’ultima volta abbia messo su qualche chiletto, il musicalmente impeccabile Reeves Gabriels ha un look da anzianotto, e Roger O’Donnell è pietrificato dietro le tastiere. Illeggibile nelle sue espressioni, totalmente immoto ad eccezione delle mani, raggiunge il massimo dell’entusiasmo picchiettando sul tamburello di ‘Boys don’t cry‘. Quanto vorrei affrontare le difficoltà della vita con l’impassibilità di Roger O’Donnell.

Ci si lascia andare ai sentimenti e alla gioia di vivere prima di chiudere il set principale con un’altra botta di nero, ‘Bloodflowers‘, altra piena espressione del potenziale sia scenico, sia di composizione, che The Cure rappresentano ancora. A questo punto lo scempio, di cui in diretta non ci si è minimamente accorti. I tre encore previsti sono stati ridotti a due, e scopriremo solo con un giorno di ritardo davanti alle foto della scaletta che sono stati tagliati quattro pezzi, tre dei quali mi avrebbero reso enormemente felice. Ci si consola ugualmente perché ‘Want‘ è un muro di suoni mica da poco, e ‘Three imaginary boys‘ non capita spesso di sentirla, molto più cupa del 1979 quando eravamo tutti più giovani.

Una decisa e gioiosa sterzata per il finale, con The Cure a ripescare tutti i classici più classici del loro repertorio, il pubblico canta e balla, Robert Smith sorride, a Simon Gallup la botta di entusiasmo e di sostanze psicotrope non è ancora scena mentre Roger O’Donnell ondeggia e addirittura sorride. Le tinte forti lasciano spazio alle tinte pastello, per la chiusura di un concerto in cui The Cure non ci hanno fatto mancare nulla, tranne proprio l’effetto-sorpresa.

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