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The Black Heart Procession

The Black Heart Procession, uno scarabeo sul cuore

IL RITORNO ALLE SCENE DEI THE BLACK HEART PROCESSION

A sette anni dall’ultima esibizione italiana, la band californiana è nuovamente in tour

Roma, 23 luglio 2024

La psicostasia era il rito di pesatura del cuore che, per gli antichi egizi, determinava il destino finale ultraterreno della persona. Davanti ad Osiride, il cuore era posto su uno dei due piatti della bilancia; sul secondo vi era adagiata una piuma. Se il cuore fosse risultato più leggero della piuma la persona avrebbe avuto accesso alla vita eterna, viceversa il muscolo cardiaco sarebbe stato divorato da Ammit, creatura con corpo di ippopotamo, zampe di leone e testa di coccodrillo. Per evitare che durante la pesatura il cuore testimoniasse contro la persona, dopo la mummificazione era posto sul torace del defunto, sotto le bende e a contatto con la pelle, uno scarabeo.

Una spiaggia, è quella di Bodrum in Turchia. Un bambino, inerme e inerte a pancia in giù. Le onde del mare ne lambiscono il corpo. È l’immagine simbolo della tragedia dei migranti. Il bambino si chiamava Alan Kurdi, veniva da Kobane e cercava con la sua famiglia di raggiungere la Grecia. La sua storia ha ispirato “Clair Obscur”, lo spettacolo che i Grimoon, band italo/francese, stanno portando in questi mesi sui palchi italiani.

Il lavoro è un concept in cui i suoni sono un filo che si svolge parallelamente alla storia raccontata per immagini nel video che scorre alle loro spalle. Le cui animazioni sembrano, in tutto e per tutto, essere state realizzate con la plastilina, come nei cartoni animati dell’infanzia di chi tra noi ha superato i quarant’anni.

La musica dei Grimoon è rarefatta, vaporosa. Ma non solo. Brani d’impatto, più aggressivi, accompagnati da sonorità elettroniche, si alternano con ritmi latini o melodie e armonie arabeggianti. La voce morbida di Solenne Le Marchand, tastierista e cantante, accarezza e culla il sonno e il sogno di Alan. Alberto Stevanato alla chitarra acustica ne doppia la linea melodica all’ottava più bassa. Il resto della band tiene la barra avanti tutta. Sarà il francese, chissà, ma l’associazione che faccio senza pensarci troppo è al mondo evocato da Lætitia Sadier degli Stereolab, con maggiori incursioni elettroniche e maggiore presenza chitarristica

In un paio di pezzi è la drum machine a reggere fondamenta e impalcatura della musica, sulle quali si stendono tappeti di chitarre pulite. In chiusura del loro set, l’e-bow di Alberto De Grandis, alla chitarra elettrica, conduce al picco di tensione energetica, sopra un martello di basso e batteria, suonati da Marco Centasso e Niccolò Romanin, che confluiscono in una coda sperimentale e rumoristica.

La performance termina con le parole di Solenne al pubblico, in cui racconta la genesi dello spettacolo e sottolinea il loro continuo sostegno a chi rischia la vita in mare sognandone una migliore e a chi la salva. Sostegno che si concretizza con il devolvere parte del ricavato del merchandising a Mediterranea, ONG impegnata in prima linea nel monitoraggio e recupero dei naufraghi nei nostri mari. Un opening che merita più di qualche riga, una scoperta i Grimoon, un ritrovare certa musica tra i laser, i balletti, i lanciafiamme, i palloncini, le produzioni mastodontiche della stagione dei concerti estiva. Le serate che amo, la musica che amo, il pubblico che sa comportarsi ai concerti e allora amo pure lui.

È nel 2012, registrando il loro quarto album “Le Deserteur” a San Diego, che hanno conosciuto Pall Jenkins, voce, chitarra e iniziatore, insieme al pianista e tastierista Tobias Nathaniel, del progetto The Black Heart Procession, protagonisti della serata di stasera.

In una calda, quasi caldissima, serata di fine luglio, in un’estate romana densa di appuntamenti musicali, l’ultima cosa che pensavo di vedere era il quasi sold out del Monk. 450 biglietti venduti in prevendita, che stasera si sono tradotti in più di 500 presenze. L’occasione è di quelle speciali. La band californiana torna sui palchi quattro anni dopo dall’ultima apparizione; sette se si considerano le date europee; ventidue se prendiamo a riferimento il loro ultimo concerto romano, proprio al Monk, quando però si chiamava ancora “La Palma”.

Quella di stasera è la prima di otto date nello stivale, inframezzate da un’esibizione in Grecia. Jenkins e Nathaniel sono accompagnati stasera da un bassista e un batterista, che non sono i loro storici accompagnatori, che non saranno presentati a fine concerto (unica mancanza della serata) e che non compaiono nemmeno nei tag e nelle foto delle pagine social della band. E che pertanto rimarranno anonimi.

Forse non tutti sanno che nelle vene del chitarrista e cantante della band scorre sangue italiano. Sua mamma, Anna Zappoli, affermata pittrice, trasvolò nel 1966 da Catania a San Diego per studiare arte e pittura. Questo spiega forse il motivo di “Amore del Tropico”, titolo del loro terzo lavoro. La cosa si fa interessante. Un californiano, di origine siciliana che sceglie di intraprendere un percorso musicale introspettivo, talvolta funereo, esplorando le ombrosità di un cuore fattosi oscuro.

È serata ad alta intensità introspettiva. Ai Black Heart Procession basta poco per ipnotizzarci e trascinarci nell’esplorazione dei recessi più tormentati dell’anima umana. All’inedita ‘When You Finished Me’ è affidato il compito di iniziarci alla discesa nelle nostre personali oscurità. In ‘Tangled’ ci prepariamo alla pesatura del cuore, affrontando i sensi di colpa di una vita, che assumono forma di un tempo in tre quarti, un basso che scende di semitono in semitono e una cantilena ipnotica e monotonale. Inquietante il ticchettio finale della chitarra quasi fosse un timer che separa i secondi dalla condanna per il male fatto in un’intera vita.

‘Tropics of Love’, ‘Broken World e ‘A Cry For Love’ fanno parte di una sequenza estratta da “Amore Del Tropico”. Le influenze caraibiche e mediterranee attenuano le tonalità oscure. La musica guadagna spazi e respiri. Il primo pezzo è quasi un samba, il terzo ha un andamento ternario in 12/8 che lo avvicina alla musica dei nostri lidi. La tonalità in minore dell’arpeggio della chitarra mantiene il profumo malinconico, mentre il synth svetta maestoso in un crescendo impercettibile quanto costante della sezione ritmica.

‘Diamonds in You Eyes’ è il pezzo più rabbioso, cattivo, trascinante e apre alla parentesi in cui sono i suoni e le atmosfere più folk a prendersi la scena. Con ‘Blue Water’ si affaccia la California. Il tremolo della chitarra è più alla Chris Isaak che alla Dick Dale, ma è la voce trascinata, spezzata, di Jenkins a paralizzarti ogni movimento. La sequenza lanciata dal batterista, in ‘Square Heart’ introduce gli archi. Un violoncello entra sugli arpeggi e gli accordi di piano. Prendete una ballad dei Rem e immaginatene una versione estremamente cupa. Più o meno siamo lì.

‘Blue Tears’ e ‘Your Church Is Red’ affondano le radici nella tradizione del country americano. Lo senti soprattutto nel modo di portare il tempo della batteria. Chiudi gli occhi, entri nel flusso e la sensazione è quella di essere cullati da un’amaca, o da una sedia a dondolo su una veranda di una villetta del Kansas. Ma con un coinvolgimento emotivo che appartiene a ben altri generi musicali. È l’abbandono, il crogiolarsi nel rimirare con compiacimento distaccato i propri mostri. Tra i due pezzi, la marcia funebre di ‘The Letter’ ricorda che il distacco dagli affanni stasera può essere solo apparente e temporaneo.

Se casomai ce ne fossimo dimenticati, è il secondo inedito della serata a risvegliarci. Con ‘Winter Again’ Jenkins e Nathaniel si danno la mano con i Tuxedo Moon, altro caposaldo di certa musica californiana. Luci viola soffuse in una stanza. La canzone si avvolge a spire su sé stessa, fino a che prende forma un crescendo finale che riempie tutta la sala. Una funivia verso il centro della terra con la nota tenuta del violoncello a far da fune portante della canzone stessa e la chitarra a far da traente, dissolvendosi nell’abbraccio con le note del piano nel solo finale.

‘Release My Heart” ci offre uno sfogo. Una presa a terra salvavita, la malinconia, l’emotività oscura che prende la direzione della rabbia estroversa anziché riverberante in spirali che si avvolgono e stritolano l’Io. Lo fa attraverso l’aumento dei volumi e le distorsioni di una chitarra che doppia all’unisono la voce. Ma è un soffio di breve durata. Nathaniel abbandona il piano per imbracciare la chitarra, e ‘The Spell’ è un brano di profonda dignità e tristezza di quelli che, se bendati, potremmo attribuire a Nick Cave.

I bis che ci regalano sono tre. Nel primo, ‘The Hold Kind of Summer’, fa la comparsa l’ormai celebre sega che Jenkins si diverte a suonare flettendola sotto un archetto. A seguire l’inquietante ‘Sign Of The Road’, con il synth che riproduce il suono di un theremin che non c’è e la cassa spietata e inesorabile della batteria. La chitarra con un tocco di delay lascia intendere la tensione a staccarsi da un buco nero che imprigiona per sempre qualsiasi forma di vita. La chiusura che si muove per semitoni ascendenti e discendenti ribadisce il tentativo eterno di prendere il volo, destinato alla sconfitta

‘Borders’ è il loro commiato. Anche qui, ascoltandone bene la struttura armonica, ci si accorge di come sia ritornato a salutarci lo spirito artistico di Nick Cave. È una marcia funebre da ascoltare abbracciati a qualcuno che per noi è importante. Una riconciliazione con la vita attraverso l’immersione nel dolore, nella perdita, nella solitudine. Ed è questo il senso profondo che si coglie nella musica dei The Black Heart Procession. Sperimentare la sofferenza per depurarsi da essa, darsi nuovamente la possibilità di alleggerire il cuore cogliere attimi di felicità. Lo stesso Jenkins ribadisce “Non voglio certo che la gente si rattristi […] Io, come tutti, tento di essere felice e lo sono, a momenti”

Ricordate la psicostasia? Ora sapete che la loro musica stasera è stata il nostro scarabeo. Dopo due ore passate con loro, il nostro cuore è diventato una piuma. Pronto per essere pesato davanti ad Osiride. Pronto per volare.

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