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The Black Crowes: cronaca di una fratellanza ritrovata

Sono trascorse meno di 48 ore da quando gli AC/DC hanno messo a ferro e fuoco Reggio Emila, conquistandola con l’unica arma a disposizione – una massiccia dose di high voltage rock’n’roll. Un po’ come accadde quasi 33 anni fa, quando a Modena Angus e compagni chiusero la spettacolare edizione 1991 del Monsters Of Rock. Un bill clamoroso che annoverava tra i comprimari anche Metallica, Queensryche ed un giovane band americana che da Atlanta stava fortemente impressionando critica e pubblico con “Shake Your Money Maker”, un disco d’esordio destinato a rimanere negli annali, e a dare nuova speranza al rock’n’roll.

Per quanto avessi apprezzato l’album, vederli dal vivo fece scoccare definitivamente la scintilla della mia love-story musicale con i fratelli Robinson, tanto che due giorni dopo non potei far a meno di andarli a vedere qui a Milano, in quel locale oramai scomparso che all’epoca era conosciuto come City Square. Nonostante i capricci, i litigi, i cambi di formazione, gli innumerevoli progetti paralleli e gli scioglimenti così definitivi che finivano sempre con una re union, quell’infatuazione non ha mai fatto registrare segni di cedimento. L’ironia del destino vuole che, a 33 anni da quel Monsters Of Rock, AC/DC, The Black Crowes e Metallica si ritrovino qui in Italia a suonare a distanza di pochi giorni (e relativamente pochi chilometri) gli uni dagli altri. Quasi come se le vibrazioni di quell’high-voltage rock’n’roll avessero aperto una sorta di tunnel spazio-temporale in cui, almeno per un paio d’ore, il tempo si annulla e ti riporta a quelle emozioni che solo la Musica è in grado di trasmetterti.

Ed eccomi quindi qui, biglietto in mano, davanti al Teatro Degli Arcimboldi – non esattamente la location più rock’n’roll della città. Credo che, come il sottoscritto, in parecchi abbiano non poco bestemmiato per la decisione infausta di farci assistere ad un concerto dei The Black Crowes da seduti. Beh, forse anche per i prezzi dei biglietti – non esattamente popolari – ma principalmente per la tortura di dover stare seduti quando la più grande rock’n’roll band attualmente in circolazione (ok, ok ok…questo è un giudizio del tutto personale, non me ne vogliate) ti suona a pochi metri di distanza.

Il teatro è ancora abbastanza vuoto quando alle 20:15 Jim Jones e i suoi All Stars entrano in scena per riscaldare la serata ai fratelli Robinson, che li hanno fortemente voluti come special guest di questa leg del loro tour. Jones è una sorta di semi-divinità del garage rock (non per niente ne viene definito il padrino) che di quel genere con i suoi Thee Hypnotics ha scritto pagine decisamente rilevanti. Jim Jones All Stars è il suo ultimo progetto, che comincia laddove finisce quello precedente, i Jim Jones Revue. Con gli All Stars ha recentemente pubblicato il suo primo album, “Ain’t No Peril”, a cui è seguito un tour che sul finire dello scorso anno è passato anche dalle nostre parti.

Oggi però è l’occasione buona per presentarsi ad un pubblico decisamente più vasto e variegato, in una location di prestigio nell’ambito di un tour importante come quello dei The Black Crowes. Sono in sette su quel palco – oltre a Jones e ai suoi due compagni dei Revue Gavin Jay (basso) ed Elliot Mortimer (tastiere) troviamo infatti l’latro chitarrista Carlton Mounsher degli Swamps, il batterista degli Heavy Chris Ellul, e dulcis in fundo la sezione fiati con i sax di Stuart Dace e Chuchi Malapersona. Nella mezz’oretta abbondante a loro concessa, gli All Stars ci travolgono con un set di rara intensità, in cui rock’n’roll, rhythm’n’blues, punk e garage si fondono in una miscela esplosiva, con un Jones perennemente sopra le righe, tanto che ad un certo punto scenderà dal palco per addentrarsi in platea saltando sulle poltroncine (ancora vuote) delle prime file per urlarci in faccia tutto il suo fervore adrenalinico. Concerto fantastico, infarcito di brani appartenenti al repertorio dei Revue, ma anche un paio di cover e un paio di pezzi da “Ain’t No Peril”. Speriamo tornino in fretta a farci visita, in tal caso vi consiglio caldamente di non perderveli per alcun motivo.

Alle 21:15 si spengono nuovamente le luci degli Arcimboldi e tocca nuovamente ad Angus e compagni introdurci nel meraviglioso modo dei The Black Crowes. Dal PA viene diffusa, ad un volume micidiale, una beneaugurante ‘It’s A Long Way To The Top If You Wanna Rock’n’Roll’ che accompagna l’ingresso in scena dei fratelli Robinson, affiancati da una formazione tutto sommato inedita che comprende il corvo-veterano Sven Pipien al basso, Cully Symington alla batteria, Erik Deutsch alle tastiere e, direttamente da Buenos Aires, il promettentissimo Nico Bereciartua alla chitarra, a cui spetta l’infausto compito di coprire un ruolo che in passato è stato a panaggio di chitarristi sublimi come Marc Ford, Audley Freed, Luther Dickinson e, più recentemente, Isaiah Mitchell.

Il tour è ovviamente dedicato al nuovo album “Happiness Bastards”, un disco che attendavamo da 15 anni con il quale Chris e Rich riportano il sound dei The Black Crowes indietro nel tempo, lasciandosi alle spalle quelle sonorità da jam band delle ultime produzioni per riscoprire il rock’n’roll più puro ed incontaminato. Il nuovo disco suona alle mie orecchie come un riuscito ibrido tra “Shake Your Moneymaker” e “The Southern Harmony And Musical Companion”, con una spruzzata di “By Your Side” per buona misura, il che ne fa probabilmente il loro album più diretto ed ‘in your face’ dai tempi del clamoroso esordio.

Ed è proprio con due pezzi di “Happiness Bastards”, ‘Bedside Manners’ e ‘Dirty Cold Sun’ che si apre il concerto, su un palco approntato come se fosse un teatro nel teatro, e il più colossale schieramento di amplificatori che abbia visto in un concerto che non fosse in uno stadio. Chris Robinson è sempre il solito Chris Robinson: un front-man di quelli che quando nascono poi buttano lo stampino, con tutto il suo campionario di mossette e quella voce meravigliosa che non smetteresti mai di ascoltare. A centro palco, dietro alla sua postazione, un enorme specchio tipo quelli nei camerini delle star, che ci offre una vista inedita sul lato b del buon Chris. Tra un pezzo e l’altro si ferma, guarda perplesso la platea e finisce per incazzarsi con le ‘maschere’ degli Arcimboldi, che fin dai subito hanno iniziato a rompere le scatole al pubblico.

«Non fate foto, non alzatevi, state fermi»: echeppalle.
«È un concerto rock, non un balletto o un’opera lirica» – dice il buon Chris rivolgendosi al personale di sala– «la gente ha pagato per uno spettacolo rock, lasciateli divertire».
Grazie Chris, ma magari la prossima volta prima di accettare di suonare in un posto del genere informati, che se no poi non ci divertiamo né noi né te.

La set-list di questo tour ha un format abbastanza standard, che prevede 5 o 6 brani del nuovo disco (inclusi i due singoli ‘Wanting And Waiting’ e ‘Cross Your Fingers’, ma anche un’inaspettata ‘Follow The Moon’), ed altrettanti da “Shake Your Money Maker” (anche perché se non li facessero i fan gli correrebbero dietro col bastone). Per completare il tutto, qualche pezzo random dagli altri album ed un paio di cover. Questa sera siamo fortunati perché accanto al materiale nuovo e ai classici di “Shake…” i corvi ci propongono una poco frequente ‘Gone’, da quel gioiellino che è stato “Amorica” (di cui ricorderete senza dubbio la controversa copertina), e una grandissima versione di ‘Goodbye Daughter Of The Revolution’ da “Warpaint”.

“The Southern Harmony” è per chi scrive uno dei più importanti album di tutti gli anni ’90, e questa sera ce lo ricordano infilando in scaletta un’interpretazione letteralmente da lacrime di ‘Sting Me’ e ‘Thorn In My Pride’, senza dimenticare la solita ‘Remedy’ che va a chiudere il set principale. Nei bis mi aspettavo di sentire la cover di ‘White Light/White Heat’ con cui di solito chiudono i concerti, ma dopo averci sorpreso con ‘High School Confidential’ di Jerry Lee Lewis, veniamo omaggiati con ‘God’s Got it’, la cover del reverendo Charlie Jackson che era stata pubblicata diversi anni fa su “Warpaint”, che chiude in bellezza un concerto fantastico, decisamente una spanna sopra al pur valido show di fine 2022 all’Alcatraz.


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Tirando le somme, possiamo dire che i The Black Crowes si son presentati qui a Milano in forma smagliante. Chris Robinson se non ci fosse bisognerebbe inventarlo e suo fratello Rich ha pure trovato il modo di sorridere ogni tanto mentre il nuovo corvo argentino pare essersi ambientato alla grande e non possiamo che applaudire alla sua prestazione priva di sbavature. Se sulle doti in sede live dubbi non ne abbiamo mai avuti, con “Happiness Bastards” i corvi di Atlanta hanno dimostrato che i quindici anni di inattività compositiva non ne hanno minimamente intaccato la capacità di scrivere canzoni memorabili.

Per quanto non più giovanotti, hanno ancora un’età che permette loro ancora diversi anni di attività, con cui potranno nuovamente stupirci ed esaltarci come han fatto questa sera. Questo, ovviamente, se Chris e Rich riusciranno a mantenere sotterrata l’ascia di guerra e capire che, da soli, potranno fare dischi e concerti eccellenti, ma di certo non eguagliare la magia che riescono a creare quando, insieme, danno vita ai The Black Crowes.

Milano, 27 maggio 2024

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