Suzanne Vega, New York state of mind
Non è nata a New York, Suzanne Vega.
È californiana, di Santa Monica per la precisione.
Ma nella grande mela ci si è trasferita insieme famiglia quando aveva poco più di due anni, in quella zona di Manhattan che si sviluppa tra la Spanish Harlem e l’Upper West Side, praticamente ai confini con Hell’s Kitchen.
Diplomatasi alla High School Of Performing Arts (quella di ‘Saranno Famosi’, per intenderci), a New York Suzanne ci è cresciuta sia fisicamente che culturalmente ed artisticamente, quando non ancora maggiorenne scriveva poesie e canzoni, e iniziava ad esibirsi nei piccoli club del Village, parte di quel movimento cooperativo di cantautori denominato ‘Fast Folks’ (da cui l’omonima rivista e tutta una serie di album antologici) dal quale fu tra le primissime ad emergere ed conquistare un contratto discografico.
E di New York, almeno nel mio immaginario, ne è diventata un po’ un simbolo.
Quando la puntina cala sui solchi dell’omonimo debutto, o dello splendido ‘Solitude Standing‘ è quasi impossibile non ritrovarsi con la mente in una tipica giornata autunnale, passeggiando senza una meta precisa tra Washington Square e Bleecker Street, addentrandosi nelle viuzze del Village mentre dai tombini si levano quelle caratteristiche colonne di vapore che sono oramai entrate nella iconografia della città, mentre il naso si permea di quell’odore che è così tipico di New York.
Per stemperare i primi freddi entri nel diner all’angolo per ordinare un tazzone di caffè nero fumante.
E nella testa ti risuonano le note di ‘Tom’s Diner‘, mentre ti chiedi se quella persona che pare osservarti dall’esterno attraverso la vetrina non stia in realtà solo osservando il proprio riflesso.
Perché alla fine New York è un po’ Suzanne Vega, e Suzanne Vega è un po’ New York. Come direbbe Billy Joel, trattasi di «New York state of mind».
Questa sera non siamo nel Village ma nell’hinterland milanese, e nella splendida cornice di Villa Arconati approda il tour estivo di Suzanne, portando in dono al migliaio di persone presenti uno spicchio della grande mela.
Al suo fianco, un grandissimo Gerry Leonard, chitarrista irlandese che nasce musicalmente con il punk e con la sua band Hinterland ma che una volta trasferitosi a New York si afferma come ricercato turnista e produttore, tanto da richiamare l’attenzione di David Bowie che lo vuole al suo fianco nella fase finale della propria carriera, praticamente da “Heathen” a “The Next Day”, divenendone anche chitarrista e direttore artistico in quello che fu il tour di “Reality”.
Suzanne si fa strada tra il pubblico sfoggiando un sobrio completo nero e alle 21:00 precise sale su di un palco sistemato strategicamente in uno dei tanti giardini di questa splendida villa settecentesca, una piccola Versailles alle porte di Milano.
L’apertura con ‘Marlene On The Wall‘ è da brividi, l’età avrà lasciato qualche segno sul suo volto ma non certo sulla sua voce, suadente ora come allora nell’intonare queste storie sempre in bilico tra dolce e amaro.
La cantautrice introduce singolarmente i pezzi che vanno progressivamente a comporre la scaletta di questa bella serata su cui però pendono, minacciose, oscure nuvole temporalesche che nulla di buono fanno presagire, trattandosi di uno show open-air. «Questa sera ascolterete anche tante canzoni del passato» annuncia Suzanne, mentre accenna alle prime note di ‘Small Blue Thing‘, a cui fa seguire ‘Carmel‘ e soprattutto ‘Gipsy’, la prima canzona da lei scritta, racconta Suzanne, quando aveva 18 anni.
L’ha scritta per un uomo, il suo primo vero amore, durato lo spazio di un’estate: «gli ho dato il mio amore, lui mi ha dato una bandana» racconta divertita.
E di come quello stesso uomo sia protagonista anche del brano successivo, ‘In Liverpool‘, un pezzo – ci dice Suzanne – che è una sorta di pt. II di ‘Gypsy‘, scritto 15 anni dopo, quando lo ha nuovamente incontrato, a storia finita, nella sua città natale.
Arriva finalmente uno dei miei pezzi preferiti in assoluto, e non mi riferisco al solo repertorio della Vega: ‘The Queen And The Soldier‘ è un brano soffuso e struggente che ti si infila nell’anima come pochi, ancora oggi come 38 anni fa, e su questa devo ammettere che una lacrimuccia ci è scappata.
Con ‘When Heroes Go Down‘, eseguita in medley con ‘Lipstick Vogue‘ di Elvis Costello, il ritmo dello show si alza notevolmente, e non possiamo non notare come l’accostamento della chitarra elettrica di Leonard all’acustica di Suzanne dia vita ad un contrasto musicale tanto efficace quanto piacevole.
Segue ‘Rock In This Pocket (Song Of David)‘, in cui il David in questione è quello che abbatté il gigante Golia con una pietra scagliata con la propria fionda, e com’era prevedibile viene dedicata alla popolazione ucraina, a sostegno della quale ci viene presentata anche ‘Last Train To Mariupol‘, unico inedito della serata: è un brano scritto dalla Vega nel giugno del 2022, sull’onda emotiva dei quanto stava (e sta tuttora) accadendo da quelle parti, e che allegorizza la presenza di Dio in mezzo alla popolazione che su quel treno abbandona la propria terra, devastata dal conflitto in atto.
Tra vecchio e nuovo, lo show procede senza perdere mezzo colpo: si passa da ‘Solitude Standing‘ a ‘Some Journey‘ per lasciare ai suoi due più grandi successi, ‘Luka‘ e ‘Tom’s Diner‘ che scatenano una rumorosa ed entusiastica reazione del pubblico, la chiusura del main-set.
Pochi secondi di pausa ed arrivano gli encore, in primis con una bellissima cover di ‘Take A Walk On The Wild Side‘ del più newyorkese dei poeti newyorkesi, Lou Reed.
«Devo molto a Lou Reed» spiega Suzanne, «mi ha insegnato cosa è davvero il rock’n’roll».
E proprio mentre pronuncia il nome di Lou, dal cielo plumbeo e carico di pioggia risuona un fragoroso tuono.
La Vega alza gli occhi al cielo e commenta «Vedete, anche da lassù ci fa sentire la sua presenza» mentre dal palco risuonano i primi accordi del celebre brano, un concentrato di lussuria, ambiguità e sregolatezza che in quattro minuti dipinge alla perfezione la New York di Andy Warhol e dei Velvet Underground, per un brano che Suzanne comunque rilegge facendolo proprio.
Bellissimo.
Con ‘Tombstone‘ e ‘Rosemary‘ si chiude lo spettacolo, Suzanne ringrazia e si rifugia rapidamente nel backstage.
Il fan che c’è in me non può comunque resistere ad un minimo di stalking; quindi, in compagnia di una birra girello tra i cortili della villa, solo per imbattermi in un gentilissimo Gerry Leonard con il quale riesco tranquillamente a scambiare quattro chiacchiere, presto raggiunti e circondati da un altro gruppetto di fan.
Gerry vede i dischi che ognuno di noi si è portato da casa e ci dice «Beh, se volete un autografo posso pensarci io».
Ritira una ventina di vinili e si avvia verso il backstage: vedere il chitarrista dei Bowie carico di dischi andare a disturbare la Vega per una manciata di autografi per conto terzi non ha prezzo, ed ancora meno ne ha il vederlo tornare qualche minuto dopo, per riportarceli, tutti belli firmati dalla buona Suzanne.