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Craig David

SuperAurora Festival 2024 | Day 01 | Craig David

PRIMA GIORNATA DI SUPERAURORA FESTIVAL, L’EVENTO CHE RICALCA IL MODELLO DEI GRANDI FESTIVAL EUROPEI

Live sul main stage l’alternative di casa nostra prima dell’ospite internazionale

Castel Fusano (RM), 27 luglio 2024

Il posto è di quelli che ti fanno chiedere dove lo avessero messo fino a quel momento. Ostia, Canale dei Pescatori, gli ultimi avamposti di Casal Palocco resi immortali da Nanni Moretti, l’ospedale Grassi, la Cristoforo Colombo, il trampolino del Kursaal. Fino a oggi mi hanno nascosto una delle meraviglie che ti fanno perdonare qualsiasi cosa di questa città. Il Castello Chigi, proprietà dell’omonima famiglia, risalente al 1623, fa da cornice alla prima edizione del SuperAurora Festival.

Per la prima volta in questa città arriva un festival pensato e costruito intorno al concept delle più grandi manifestazioni musicali internazionali. Aree benessere, mercato dell’artigianato e vintage, esposizioni, laser e video show e, ovviamente e soprattutto, musica. Quattro palchi disposti in modo da annullare le interferenze acustiche, diversi generi musicali, per accontentare un pubblico eterogeneo. Colori, tanti; dal bianco del gigantesco arco di palloncini che ti accoglie all’entrata, ai glitter sui volti di ragazze e ragazzi e ai loro outfit, alle luci della ruota panoramica che brillano nella notte di fine luglio.

L’idea è bella, il posto anche, le criticità e le carenze organizzative la mettono in secondo piano. È la prima edizione, alcune sono comprensibili e perdonabili, altre no.

Ora pensiamo alla musica che va in scena sul palco Andromeda, il mainstage. Sono le 17.30, viaggiamo con un’ora e mezza abbondante di ritardo sull’orario previsto. Il compito di aprire le danze del festival va ai Frenèsya, duo di Roma formato da Flavia e Federico Marra. Sorella e fratello, giovanissimi, polistrumentisti, studi tra Dams e conservatorio, hanno un quarto d’ora di tempo. Lo occupano con il loro primo singolo “Sesto Senso” e un medley finale da ballare. Nonostante il caldo, che sfiora i limiti di resistenza umana, riescono nel loro tentativo.

Frenèsya
Frenèsya

Raccolgono il testimone i milanesi dell’Officina della Camomilla. Iniziatore del progetto, anima e frontman è Federico De Leo, ma sul palco il ruolo del protagonista lo condivide con suo sodale Stefano Poletti, regista, skater e polistrumentista. Indossa un abitino femminile velato e semitrasparente come da consuetudine. Passa dalla Stratocaster color rosa antico, all’armonica, allo slide-whistle, allo xilofono, strumento che caratterizza e conferisce identità e riconoscibilità al sound della band.

I primi brani del loro set sono leggeri e pop. Con l’andare avanti i suoni acquistano la cattiveria e aggressività tipiche del rock, fino a entrare in territori noise, come nel caso di ‘Ho Fatto Esplodere Il Mio Condominio di Merda’. Penalizzati un po’ dalla collocazione a inizio giornata, ci pensa sempre Stefano Poletti a lanciarsi dal palco, saltare le transenne e dar seguito alle parole di De Leo che preannuncia il pogo. Chiudono con l’indie pop malinconico di ‘Gentilissimo Oh’, con lee punteggiature dello xilofono che gli conferiscono un’aura surrealista e folle.

Officina della Camomilla
Officina della Camomilla

Laila Al Habash, 25 anni e una manciata di mesi, è una cantautrice italo-palestinese. Nel 2021 esce con il suo primo lavoro “Mystic Motel”, e nel giugno 2024 pubblica l’EP “Long Story Short”. È accompagnata sul palco da un terzetto, basso, tastiere, batteria. Ha una frequenza di vibrazione energetica alta, molto. Elegante, eterea, rinascimentale, tira fuori tutta la sua mediterraneità nelle tonalità calde e profonde della sua voce e nelle movenze sul palco.

Le sue due anime trovano sintesi nell’interpretazione dei suoi pezzi. In ‘Flambé’ sono evidenti i riferimenti jazz, ‘Sottobraccio’ ci conduce in atmosfere rarefatti e sognanti. Le stesse con cui si apre ‘Oracolo’, la voce appoggiata su un cuscino di note di piano, a nuotare su una nuvola, prima di tornare terrena e viscerale. A volte scanzonata, può decidere di divetare improvvisamente spietata nella sua sensualità. Voce da cantante soul/r’n’b’ che si muove con naturalezza e personalità anche in brani con momenti trip hop o quando la cassa della batteria si fa trascinante. È padrona dell’energia. Sentiremo parlare ancora di lei.

Laila Al Habash
Laila Al Habash

Sono da poco passate le 20. Il pubblico inizia ad affluire, aumentano anche le presenze nel pit sottopalco. Non mi nascondo, la scelta di essere qui è motivata soprattutto dalla loro presenza. Gli I Hate My Village sono la meravigliosa idea di Adriano Viterbini, Fabio Rondanini, Alberto Ferrari e Marco Fasolo. Ci vorrebbe un pezzo a parte per raccontare il loro retroterra artistico e le collaborazioni. Per ora basti sapere che il progetto nasce nel 2018, un Ep e due dischi all’attivo; l’ultimo, “Nevermind The Tempo” uscito pochi mesi fa.

L’introduzione è un’incessante e travolgente batteria afro. Un mood tribale. Una scarica elettrica di migliaia di volt percorre i corpi dei presenti che iniziano a vibrare dall’interno. L’Africa è la matrice che attraversa trasversalmente la loro musica, ma le incursioni sonore provengono da decine di mondi diversi. Fela Kuti, l’afrobeat che incontra i Primus, John Zorn, le asprezze dei Nirvana. Tempi pari che diventano dispari e viceversa. Fanno succedere quello che non ti aspetti, nel momento in cui non te lo aspetti.

L’Eventide è un effetto che, nelle mani giuste, può essere divertente. Adriano Viterbini ci passa la sua Strato e ne tira fuori suoni surreali, ai limiti del fantascientifico, alternandoli a timbriche sporche, rozze, dure come un pugno in faccia ricevuto in sala prove e che farebbero la felicità di Steve Albini. La voce di Alberto Ferrari trasfigurata, come non l’avevo mai sentita prima di ora, usata come uno strumento, allucinata, distorta, modulata, pronta a saltarti alla gola come un cobra reale

Il legame tra i musicisti va oltre la vita di palco. Lo capisci guardandoli suonare. Si intendono con mezzo respiro, si ascoltano con occhi, gesti, pelle. Aprono anche i cancelli dell’alba con richiami psichedelici. Si affaccia l’India, le chitarre diventano sitar e ti proiettano in un viaggio in nebulose di gas nobili a spirale. Arrivano i blues, allucinati. Comete di ghiaccio infuocato, un treno alimentato a barre di plutonio. Poliritmie, accenti che si spostano, un Robert Fripp sotto acido.

E sotto tutto quest’iradiddio, a costituire le fondamenta di queste costruzioni sonore, le linee di basso di Marco Fasolo che cementano e tengono insieme universi antitetici. Riportano il tutto a un senso ritmico “dritto”, permettendo anche ai corpi di noi, umili mortali, entrare nel flusso, seguirne l’onda e abbandonarcisi. Insomma, immedesimandomi in un critico di quelli bravi, posso riassumere la performance degli IHMV in una sola frase: “ma de che stamo a parlà…”.

Li ritroverò tra non molto nel loro camerino per qualche battuta al volo prima della loro cena. A volte si dice che i più grandi siano i più umili e disponibili. A volte è vero, altre volte no. Ma in questo caso la regola pare sia confermatissima.

I Hate My Village
I Hate My Village

Altro appuntamento clou della giornata è quello con i perugini Fast Animals and Slow Kids, ovvero Aimone Romizi (voce), Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso), Alessio Mingoli (batteria), Daniele Ghiandoni (tastiere e seconda chitarra). Come per l’Officina della Camomilla scelgono di inserire nella prima parte del set le canzoni con tratti pop più marcati. ‘Canzoni Tristi’, ‘Lago ad Alta Quota’ e, soprattutto, ‘Dritto al cuore’, presentata come una “canzone per chi ama e sbaglia forte” strizzano l’occhio al mainstream e alla risposta del pubblico. Dalla metà in poi iniziano a spingere.

Nel mezzo di ‘Come Reagire al Presente’, Aimone, da frontman consumato, salta giù dal palco e, circondato dalla security, va a farsi un gin tonic in uno dei bar, trascinandosi dietro folla e fotografi. La cover di “Rock And Roll” dei Led Zeppelin suggella questo momento, anche se ci andrei piano con la scelta dei pezzi da coverizzare. Chiudono con ‘Forse Non È la Felicità’ e l’invito al pubblico a cantarla, a seguire ‘Cosa ci Direbbe’, brano scritto con Willie Peyote,

Li rivedo oggi dopo sette anni, li trovo più maturi, ma… ma gli piace vincere facile. Sono saltati al volo sul treno dell’indie rock per poi virare verso un pop di facile ascolto, con qualche chitarra distorta e qualche trovata da palco, efficace, ma non troppo originale. Vanno benissimo, alcune canzoni funzionano, ma rispetto ad alcuni anni fa hanno un po’ limato immediatezza e spontaneità. Opinione personale che nulla toglie a chi pensa il contrario.

Fast Animals and Slow Kids
Fast Animals and Slow Kids

Intanto da un paio d’ore il backstage si è animato con l’arrivo di Luca Ferrazzi, meglio conosciuto come Mezzosangue e il suo nutrito seguito. Lo ritrovo un anno dopo lo Sziget 2023 e riparto dalla sua presentazione, che mi fece nello scorso agosto:

«La mia famiglia è spaccata a metà: da parte di madre sono artisti, da parte di padre sono tutti operai. Io sono il risultato di questa spaccatura, un mezzosangue, cavallo forte, che tira dritto testa bassa per la sua strada. Più resistente di tutti gli altri cavalli, ma senza il pedigree per gareggiare».

Otto giorni fa è uscita una riproposizione di “Musica Cicatrene”, mixtape del 2012 ripubblicato oggi in una nuova veste come album vero e proprio. Le nuove produzioni sono opera di G-laspada, musicista e produttore siciliano, che stasera occupa il seggiolino della batteria.

Una gigantesca scritta “Only The Proudest” campeggia sul palco, illuminato da luci rosse e verdi. L’area concerti è ormai gremita di persone, molte di queste solo per lui. Domina, letteralmente ara e rivolta il palco senza fermarsi mai. Prima di ‘Out Of My Mind’ chiede al pubblico di accovacciarsi per poi esplodere al primo attacco di batteria. Testi di accusa, duri, di denuncia senza giri di parole.

“Odio la gente da sempre
Come odio quel modo in cui mente per niente
Odio quel vuoto che rendono oro
Quel modo che c’hanno di credere al niente”

Il pit è gremito di suoi fan, che vogliono respirare la sua stessa aria. Un cartello “Ciao Mezzo, posso abbracciarti”; la richiesta della ragazza è esaudita subito, alla fine del terzo pezzo in scaletta. ‘Ectoplasmi’, è una sequenza di basso e organo. Non ha filtri, è credibile, di cuore, vero. E a dispetto dei testi cantati, non mette barriere tra sé e le persone. Altro che odio; con la gente e per la gente. Ne ha abbracciata una, ma è come se avesse migliaia di persone avvinghiate addosso. Arrivano i chitarroni violenti di ‘Still Proud’. Poi il brano che dà il titolo al disco. ‘Musica Cicatrene’ è per il pubblico, ringraziamento e celebrazione del primo posto raggiunto nelle classifiche di vendita della FIMI.

“Tu sei la luce nella notte, la chiave delle porteSangue sulle nocche nelle giornate storteTu sei la mia sorte, la vena sopra al colloQuando mi scopro forte le volte che non mollo”

C’è molto nella sua musica; profondità dei testi, rabbia, sofferenza. È presente un lavoro di contaminazione e ricerca, di commistione tra suoni e generi di diversa provenienza. Ma la parola chiave del suo successo è “verità”. È credibile, congruente, centrato e arriva al pubblico, sia nei pezzi più violenti, che in quelli più dolci e sentimentali come ‘Parlami’, annunciato da un arpeggio di chitarra acustica. ‘Dopo L’Aurora’ è dedicata a Cranio Randagio, il giovanissimo rapper tragicamente scomparso nel 2016, e «a tutti quelli che questa città ha perso». Chiude con un’intro di trombe che preannuncia ‘Nevermind’ e una salva di fuochi d’artificio sparati dal palco.

mezzosangue
Mezzosangue

Ritorno dietro le quinte mentre i ragazzi del service caricano e scaricano pesanti flight case, amplificatori, testate, meccaniche delle batterie. Quasi sempre dimenticati, sono la vera anima pulsante dei live. Andrebbero ricordati più spesso. Poi, verso l’una di notte, una brutta pagina.

Ad esserne protagonista, suo malgrado è JP Cooper. Il cantautore britannico ci regala più che piacevoli momenti dance, pop e soul. Colpisce il suono di chitarra nei suoi pezzi, il classico Stratocaster pulito e con la pienezza e il calore degli ampli valvolari. Ma basta un gesto di un responsabile di palco e la sua performance è brutalmente tagliata dopo cinque pezzi e mezz’ora di performance. Sconta lui per tutti il ritardo sul programma della giornata. È più che imbarazzato e dispiaciuto, si scusa una volta, poi una seconda, poi una terza. Promette di tornare presto a Roma e saluta un pubblico parecchio deluso.

JP Cooper
JP Cooper

È l’una e mezza di notte, secondo gli orari previsti Craig David avrebbe dovuto terminare il suo set venti minuti fa. E invece stanno ancora allestendo il palco per il suo set. Ma c’è poco da allestire, perché si esibirà cantando su basi. Amo i concerti, non i karaoke e sarà per la prossima volta. Sono qui da quasi dieci ore ed è stata una giornata non semplice. Lo stomaco è rimasto vuoto La musica è stata complessivamente buona, in alcuni casi eccellente. Il resto meno, ma ne parliamo in altra sede.

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