Sunn O))), la ritualità del suono
Il Live Music Club di Trezzo sull’Adda ospita nuovamente la band capostipite della scena drone internazionale e, nuovamente, siamo presenti per non perdere la performance dei Sunn O))), in quest’occasione fisici e intensi come mai abbiamo visto in precedenza.
L’apertura della serata è affidata alla band bolognese Horrror Vacui, che propone una personale visione di death rock.
Pochi avventori a inizio serata riempiono a malapena le prime file quando il frontman richiama all’attenzione con un «Ciao a tutti» che dà il via all’esibizione.
Inizialmente i suoni sono molto fuori focus, c’è un grande senso di confusione e la voce non è distinguibile.
Dopo i primi minuti i suoni si fanno via via migliori e fortunatamente è possibile godere al meglio della proposta della band.
A tratti ci sono echi di Interpol con una maggiore aggressività, il basso è sempre ben presente e le chitarre, anche se basse, riescono a creare delle armonie interessanti.
Il frontman è la chiave di questa band e la sua voce riesce a calzare perfettamente senza mai essere invasiva.
Con il progredire della setlist la presenza scenica della band aumenta e vengono presentati brani dai temi più profondi.
Una buona esibizione per scaldare la sala che si fa sempre più piena di ascoltatori.
Giusto il tempo per un cambio palco velocissimo e la sala (gremita) urla al line check di Greg Anderson e Stephen O’Malley, che subito si mostrano senza nascondersi ed empatizzano con la simpatia del pubblico italiano.
Per chi non ne fosse a conoscenza, prima di essere una band i Sunn O))) sono un concetto.
Il duo fondatore ha affondato le proprie radici nel motto “maximum volume yelds maximum results”, e questo è diventato il fulcro della loro proposta, perseguita senza sosta da oltre vent’anni.
Il muro monolitico di amplificatori dietro di loro spara a tutto volume un accavallarsi di frequenze con l’obiettivo di riempire l’aria di suono: l’aria come mezzo fisico, per trasmettere fisicamente un feeling a chi sta partecipando a questo incredibile rituale.
Le luci si spengono e il duo avvia il drone che da subito si presenta come un tuono feroce, accompagnato dai primi secondi da un light show che crea un muro bianco e psichedelico. Abbiamo già capito che a differenza degli altri tour questa volta non c’è spazio per i momenti di calma, le transizioni ambient, i suoni dei sintetizzatori.
Niente di tutto questo potrà ammorbidire l’unico elemento presente: le due chitarre, che suoneranno dall’inizio alla fine senza dare un secondo di riposo alle orecchie e alle casse toraciche. Anche il fumo sparato dalle macchine non crea la nebbia che avvolge la sala, ma viene dosato sul palco in modo meno scenografico ma molto più congeniale alla ritualità dei monaci del suono.
I dodici full stack di testate Sunn e Ampeg suonano tutti e creano un muro sonoro che nelle prime file risulta veramente pesante da sostenere a livello fisico.
Difatti c’è molto via vai di gente che si sposta, cambia posizione e trova il proprio setting per godere al meglio dell’aria carica di saturazione.
Entrambi i chitarristi (e fondatori) della formazione statunitense propongono questa volta un set definito Shoshin (初心) Duo, che verte sull’immersione in un’esperienza live di riff puri e primordiali, strutture sonore compatte e pesanti, avvolti nelle nebbie sonore e circondati da un minimalismo glaciale.
Non c’è nessun accenno a brani o strutture precostruite, l’improvvisazione è l’unica regola.
I drone vengono guidati magistralmente dai due, in una somma perfetta di suono ed intesa, assolutamente palpabile e difficilmente definibile se non guardando alla loro carriera più che ventennale, in cui ‘The lord‘ e ‘SOMA‘ hanno sempre perseguito la propria idea con maniacale costanza, senza mai concedersi deviazioni.
La vera chiave di tutto questo è proprio la dedizione che si percepisce nel portare in giro per il mondo una backline pesante specialmente a livello fisico, che si riflette in tutto il loro operato.
I muri, il pavimento, i corrimano del club vibrano tutti a diverse intensità, cambiando al cambiare degli accordi, delle frequenze, con una fisicità che sta stretta nelle parole scritte.
Le plettrate sono feroci, alcuni accordi suonano come tuoni, rimbombano dentro ciascuna persona creando una pressione nel petto, nella testa e nelle gambe che trasmette tutta la pesantezza di quei dodici full stack.
Feedback riempiono alcuni momenti creando un diverso tipo di pressione sul timpano, che rende il rientro dei drone più pesante ed ancora più annichilente.
Con il passare del tempo, c’è una strana sensazione che si prova, un dualismo impossibile in cui ci si sente sollevati, distesi, e al tempo stesso annientati.
Ora sul palco i due da Seattle non stanno più suonando: si crea una voragine di suono caotico e distruttivo che risucchia tutto e tutti, mentre gli amplificatori sono impegnati a fasare drone, feedback, livelli di distorsione insostenibili e chitarre trasformate in generatori di caos.
Dopo un ora e mezza di drone ininterrotto, istantaneamente il silenzio. Una rinascita come la quiete dopo la tempesta.