Stewart Copeland, la perfezione di un batterista punk
Perugia, luglio 2018, Arena Santa Giuliana.
Un alieno si muove da pochi minuti su un palco con una band di una decina di elementi, o forse più.
Ognuno porta il suo strumento a tracolla.
Davanti a lui una platea di tremila posti, tutti a sedere.
La musica è trascinante, elementi afro e caraibici sono da sempre presenti nel linguaggio dell’alieno.
Qualcuno, prevalentemente ragazze, si alza e inizia a ballare.
Alcuni si spostano sotto al palco, altri restano sul posto.
La platea, o parte di essa borbotta.
La sicurezza invece reagisce e prova a far accomodare al loro posto le persone in piedi. ma non ha fatto i conti con l’alieno, che ferma immediatamente il concerto, guarda negli occhi uno dei nerboruti e con tono che non ammette repliche – «Security, let them dance!!!».
Non finisce nemmeno la frase: nell’Arena Santa Giuliana impazza una festa di ballo, liberazione, carnalità, emozioni e soprattutto grandissima musica. L’alieno di nome fa David Byrne, e ancora oggi non ho capito se tutto questo sia stata una reazione spontanea o preparata ad hoc, per elevare all’ennesima potenza energia e coinvolgimento del pubblico.
Togliamo subito il granello di sabbia nell’ingranaggio altrimenti oliato di una manifestazione a regola d’arte.
Premessa, Umbria Jazz resta il miglior festival italiano.
Paradiso di chi ama la musica, di qualunque genere essa sia.
Cammini nel centro storico, incontri persone con il tuo stesso fuoco negli occhi, musicisti, giornalisti o semplici appassionati, riconoscersi e rispecchiarsi in quelle fiamme che ardono.
Tuttavia, alcuni generi musicali, il pop, il jazz con forti elementi afrocaraibici, il soul e il funky e il rock, traggono forza all’interno di un circuito emotivo riverberante tra artista e pubblico.
Le emozioni si vivono e percepiscono in primis come reazioni (neuro)fisiologiche, e il corpo è il terreno elettivo sul quale si esperiscono e attraverso il quale si comunicano.
Se blocchi il corpo, blocchi le emozioni.
Se blocchi le emozioni, blocchi la musica.
Non è una legge universale, ma se hai sul palco una batteria indemoniata e punk (sua citazione) come quella di Stewart Copeland, supportata anche da altri due percussionisti con il fuoco nelle mani e nelle bacchette, e metti le persone a sedere, trasformi il pubblico da protagonista a semplice spettatore.
E non sempre è la decisione migliore che tu possa prendere.
Se davanti a me ho Einaudi, Jarrett, Fresu, Metheny, i Sigur Ros, è doveroso creare un contesto fruitivo che spinga verso un tipo di ascolto e ci sta.
Se ho Copeland, Bonamassa, o Shabaka Hutchings, allora no.
E che la risposta del pubblico sia importante per Copeland lo si capisce subito.
«Let’s Rock!» è la parola d’ordine che l’ex batterista dei Police pronuncia a inizio concerto, cartina di tornasole di uno spirito ribelle e anarchico, rimasto tale a distanza di quattro decadi. Spirito rock, suoni e arrangiamenti che vanno oltre.
«Cosa ci fa una batteria punk accanto a un’orchestra da camera?».
Parte da questa domanda il suo racconto degli anni passati a comporre colonne sonore, si è accesa l’idea di coinvolgere le grandi orchestre anche nella riproposizione dei brani dei Police più amati dai fan, celebrandone e ripercorrendone la breve, ma intensa carriera.
Investite per l’occasione l’Umbria Jazz Orchestra e l’Orchestra da Camera di Perugia.
Sul palco accanto ad esse salgono anche due percussionisti e tre eccezionali vocalist che meritano la citazione: Laise Sanches, Raquel Brown, Sarah-Jane Wijdenbosch.
Necessario completamento alla presenza di Copeland, Gianni Rojatti alle chitarre elettriche e Igor Spallati al basso.
Dulcis in fundo, l’amico di lunga data, Vittorio Cosma al pianoforte.
Al centro, sul podio del Direttore, il Maestro Troy Miller.
“Police De-Ranged”: il batterista tiene a sottolineare la sua visione della musica squilibrata, destrutturata, libera da qualsiasi vincolo e con una buona dose di follia.
Il risultato è convincente fin da ‘Demolition Man‘, che entra con il più classico “reggae & roll”, inconfondibile marchio di fabbrica della band inglese.
Il rischio di appesantimenti barocchi ed eccessi virtuosistici e autocompiacenti è scongiurato, con arrangiamenti equilibrati e al servizio delle canzoni. Una volta genialità si sposa con sobrietà.
Le voci sono ben amalgamate armonicamente e ritmicamente e mai ridondanti.
Le parti di ogni strumento sono tutte rigorosamente scritte (sei stato tu Vittorio Cosma, vero?).
C’è spazio, comunque, per momenti più arditi e improvvisativi, soprattutto nelle intro delle canzoni.
Le partiture scritte hanno permesso all’intero ensemble di effettuare un’unica prova, privilegiando immediatezza e spontaneità, a discapito di una perfezione meccanica e forse troppo poco rock.
Tutto questo per espressa volontà dell’artista.
I brani scelti sono i più classici e conosciuti della band inglese e nel complesso fedeli agli originali.
L’intenzione è quella di regalare un concerto ai fan dei Police, cambiare troppo le carte in tavola avrebbe reso più difficile il raggiungimento dell’obiettivo.
Ma con alcune eccezioni.
Su tutte ‘Roxanne‘, stravolta nella struttura, nelle armonie, nel ritmo e presentata con una sfida: «Il primo di voi che la riconosce vince un giro sul jet della band».
Mischia le carte anche in ‘Every Breath You Take‘, la cui intro è connotata da soluzioni che potrebbero caratterizzare una colonna sonora di un thriller. Strano, ma non troppo visto che a parlare nella canzone è uno stalker ante litteram.
Ritmicamente il marchio di fabbrica è inconfondibile.
Le sue articolate figurazioni sul charleston la firma che rendeva unico e riconoscibile tra milioni il sound di Sting e compagni.
L’uso centellinato del rullante, l’incastro con il basso e il lavoro delle percussioni sono la struttura portante del binomio ‘Spirits in the Material World‘ e ‘One World (Not Three)‘.
Un’ovazione risponde all’annuncio di ‘Walking On the Moon‘.
La versione è più veloce rispetto a quella presente su disco e lascia spazio a un’improvvisazione con a chitarra e basso, molto Police, sulla coda del pezzo, con le cantanti che sull’inciso vocale finale giocano a botta e risposta con il pubblico esattamente come faceva Sting nei live della band.
Chi ha avuto modo la fortuna di esserci capirà cosa sto dicendo: nel 1994 uscì postumo un doppio live, chi non c’era non ha pertanto più scuse
La sfida più grande per Stewart Copeland è dunque il confrontarsi con il passato di una tra le band più iconiche, originali, creative e amate dal pubblico.
E la vince sia per il suo talento musicale, sia perché a stare sul palco si diverte come un matto.
E fa divertire il pubblico scherzando con i musicisti, ma soprattutto quando fa entrare dalla porta principale il suo rapporto con mister Gordon Matthew Summer, in arte Sting.
«Abbiamo avuto qualche occasionale disaccordo» dice ridendo e raccontando dei contrasti artistici durante la lavorazione di “Synchronicity”, «ma stasera mi prendo la mia vendetta».
Ma gli brillano gli occhi e non esita subito dopo a definirlo un genio, il più grande mai incontrato.
Parole di stima e profondo affetto le ha anche per Andy Summers, «un mostro alla chitarra come pochissimi altri. Prende accordi e arpeggi impossibili. Non ha dieci dita, ne ha dodici».
È inevitabile immaginare come potesse essere l’incastro di personalità così forti e diverse tra loro: da una parte il vulcanico, estroverso, trascinante ed esuberante batterista; dall’altra il composto, geniale, introverso, introspettivo, riservato bassista e cantante che, per uno scherzo del destino, nello stesso momento si sta esibendo a poco più di centocinquanta chilometri di distanza, mostrando di converso (a quanto mi raccontano in tempo reale) un aplomb che più british c’è solo il Duca di Kent.
E Copeland invece si tuffa sul leggio del direttore d’orchestra e quasi distrugge un violoncello durante l’unico brano estrapolato dal suo repertorio. Uno strumentale allucinato, in cui alterna cambi di tempo, stacchi improvvisi a cavalcate tiratissime.
Quando si diverte a imbracciare una Stratocaster («non avete idea di quanto sia fico suonare dei power chords pieni, con due orchestre alle spalle») e attacca la ritmica reggae di ‘The Bed’s Too Big Without You‘, mi alzo e vado in fondo a ballare davanti al mixer, da solo.
Dopo pochi minuti, mi raggiunge il chitarrista di una nota band italiaa e capisco di aver fatto la scelta giusta.
Poi torna alla batteria, arrivano momenti più rock, con la chitarra “a spacco” durante ‘Don’t Stand So Close to Me‘, seguita da un intro di oboe e flauti, che trova sbocco nell’arpeggio di ‘Message In a Bottle‘, approdo caldo e accogliente di «centinaia di milioni di naufraghi che cercano una casa» orfani della loro musica.
Chiude con il medley ‘Cant’ Stand Losing You/Reggatta de Blanc‘ e poi, finalmente, tutti in piedi a correre sotto al palco per ‘Every Little Thing She Does Is Magic‘, brano strabordante di idee e soluzioni geniali e non convenzionali, mascherato da divertente e innocua canzonetta pop.
Finiamo tutti a ballare e cantare l’outro del pezzo, un pezzo all’interno del pezzo.
Cosa resterà di questa serata?
Divertimento, entusiasmo, passione.
In sintesi, l’idea di musica di Stewart Copeland.
Prendere il proprio lavoro con spirito dissacrante, autoironia, leggerezza.
Un talento che non scade mai nel vuoto esercizio stilistico fine a sé stesso o nello sfoggio di intellettualismi.
Non è un genio, sa di non esserlo, non pretende di apparire tale – ed è la sua arma vincente.
L’affermare «Sono un batterista punk» rivela la sua identità, il nucleo che puntella le fondamenta della sua musica che riesce a integrare alla perfezione anche con musicisti di tutt’altra matrice.
Il risultato è quello che si è visto stasera.
Il risultato è anche l’opera omnia dei Police sparata nelle casse della macchina, all’una di notte, sulla E45 mentre torno a Roma.
Non finisce sempre così, ve lo assicuro.