St. Vincent e le provocazioni in controtempo
Data unica per St. Vincent in Italia, il 25 giugno, al Circolo Magnolia di Segrate (MI).
Annie Clark, che con questo nome d’arte calca le scene da più di dieci anni, è una delle artiste più acclamate dalla critica della musica alternativa e nel 2017 ha pubblicato il suo quinto album, “Masseduction”, ottenendo un discreto successo di pubblico oltre che a raccogliere come di consueto i favori degli esperti del settore, e aggiungendo alle consuete innovazioni musicali un nuovo cambio di look e un approccio ribelle ed eterodosso ad alcune tematiche della sfera sentimentale.
Il cartellone della serata non prevede nessuna apertura per St. Vincent, che sale sul palco esterno del locale nel cuore dell’Idroscalo di Milano con una vistosa mise color rosso fiammante, imbracciando una chitarra arancione.
L’inizio di ‘Sugarboy‘ si caratterizza di suoni elettronici dall’aria retrò, una voce che richiama a echi di new wave e una chiusura in un crescendo di frastuono di chitarra.
Se il timbro di voce è bello e profondo, l’intonazione non è ottimale. ‘Los Ageless‘, uno dei singoli estratti dall’ultimo disco, è impostata, come lo è la formazione sul palco, quattro in linea con St. Vincent in posizione laterale, un fondale con uno schieramento ordinato di lampadine e bianche luci sobrie.
La costruzione ammiccante dei pezzi più recenti raggiunge l’apice con la title-track ‘Masseduction‘, in cui le luci si fanno rosse e la voce assume un timbro da gattamorta. Chitarrista di indubbia qualità, in questo inizio St. Vincent non si spinge in virtuosismi particolari, spinge un po’ sui volumi negli inserimenti di taglio rock in un impianto pop moderno e strutturato. ‘Year of the tiger‘ ha un attacco ruvido che si evolve in una melodia distorta, la voce migliora decisamente anche se si appoggia a un uso abbondante di effetti. I tempi sono piuttosto blandi e giocano sugli inntesti in controtempo di chitarre più forti.
Si va da brani sostenuti e ipnotici come ‘Pills‘, passando attraverso frangenti meno rumorosi e più intensi, in cui la voce e la chitarra prendono il sopravvento spostandosi su sonorità più convenzionali, e arrivando a pezzi di grande presa come ‘Digital witness‘. La costruzione delle canzoni usa spesso riff semplici, appoggiati su tastiere corpose e portanti, con improvvisi intermezzi di schitarrate virtuose e aggressive. Quando invece i suoni di St. Vincent si fanno chiusi e cupi, la connessione col pubblico sembra un po’ venire meno, in una specie di elevazione autoreferenziale, con aperture maestose e distaccate.
L’encore si sviluppa su ritmi più lenti e suoni più semplici, ‘New York‘ con la sola tastiera, ‘Hang on me‘ volumizzata dai bassi e distorta, ‘Happy birthday, Johnny‘ in completa solitudine di voce e chitarra. In questi pezzi, St. Vincent si avvicina a una figura più convenzionale di cantautrice femminile, che canta decisamente bene ma su corde standard.
L’estro e i virtuosismi della polistrumentista americana sono fuori discussione, così come l’eclettismo che ne ha contraddistinto l’intera carriera. L’impatto dei pezzi e dell’esibizione non è per niente semplice, e pur sembrando a volte un po’ troppo innamorata di se stessa non rinuncia mai a metter in mostra le proprie incontrovertibili qualità.