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Spring Attitude Festival 2024 | Day 02

VIAGRA BOYS, FAT DOG, BOBBY JOE LONG’S FRIENDSHIP PARTY FANNO TREMARE GLI STUDI DI CINECITTÀ

Chiusura ad alta energia per il festival di fine estate

Roma, 14 settembre 2024 / Ph. © Tommaso Notarangelo

Parto dalla fine. Per la prima volta in Italia, esco da un festival senza calo di zuccheri o disidratazione. Un vantaggio per me, e anche per organizzatori e attività di ristorazione, che stavolta hanno ricevuto i miei soldi.
L’ottima organizzazione dello Spring Attitude Festival non è stata conseguenza di caso o fortuna, ma del lavoro di tutti coloro che si sono adoperati per l’ottima riuscita della manifestazione. Nessuna fila nei punti di ristoro, immediatezza di ricarica del braccialetto per i pagamenti cashless. Prezzi congegnati in modo tale da rendere agevole l’esaurimento completo del credito elettronico. Nessun credito residuo rimasto, nessun rimborso da chiedere, nessuna incazzatura.

Condizioni ottimali, dopo otto ore di musica ininterrotta. ero entrato nel primo pomeriggio, perché ai festival spesso le cose più interessanti si ascoltano prima degli headliner. E perché si trovano i parcheggi migliori. Gli addetti alla sicurezza mi accolgono con il sorriso, in pochi minuti sono dentro ad ascoltarmi Anna And the Vulkan.

Anna and the Vulkan

Da Napoli, figlia d’arte, papà musicista e compositore, cresce ascoltando Pino Daniele e Lucio Dalla. Immersa nei suoni del golfo di Napoli, ha assorbito per osmosi certe sonorità e un certo modo di suonare e pensare la musica. Groove inconfondibile che si sposa con l’imprescindibile elettronica. Esuberante e grintosa sul palco, outfit rosa e chitarra in tinta. Come tutti coloro che aprono i festival, suona per i malati di bulimia da musica, o gli amanti delle nuove scoperte. Ma si lascia ascoltare bene. In chiusura chiude ospitando due ragazzi del collettivo Fuck Pop, factory musicale sparsa in tutta Italia.

Mi sposto davanti al palco adiacente dove a esibirsi è Gaia Morelli. Ventiquattro anni, originaria di Rivalta, a pochi chilometri da Torino. Presenta il suo primo disco, “La Natura delle Cose”, di recente uscita. Quartetto classico, due chitarre, basso e batteria; un quinto componente rimasto a casa per motivi di salute. Voce da contralto, un set che vorrebbe essere rock, ma lo è fino a un certo punto. In parte per una ciabatta che va in corto facendole saltare l’alimentazione della sua pedal board, in parte per un livello di energia personale un po’ basso. Per far rock non basta alzare il volume delle chitarre.

Gaia Morelli

Invece è semplice fare rock. Ad esempio, basta presentarsi su un palco a Cinecittà e salutare il pubblico con “Hello Wembley!” come se nulla fosse.  Esattamente come fa Joe Love, frontman, chitarrista e vocalist dei Fat Dog, band del sudest di Londra, nata durante la pandemia. Pochi secondi e capisci subito cosa ti aspetta. Per molti sono stati la band rivelazione del 2023, hanno aperto i live di band come Viagra Boys e Yard Act. Reduci dall’Ypsigrock Festival 2024 (a proposito, incrociamo le dita), pochi giorni fa è uscito “WOOF”, il loro primo album.

Dicevamo cosa è rock. È rock la batteria tenuta bassissima da Johnny Hutchinson per sovrastarla, dominarla e aggredirla ancora di più. Lo è anche l’addetto ai synth e alle tastiere, Chris Hughes, che si getta in mezzo al pubblico, fare da scintilla, scatenare un pogo selvaggio e lanciarvisi dentro, È rock una partenza da reattore nucleare di ‘Vigilante’, a cui segue un’ora indiavolata di commistioni tra dance, punk, ska, disco, trance e klezmer. È rock il sax tenore suonato in modo indemoniato da Morgan Wallace. Non c’entra nulla ma mi ritorna in mente Sarah Smith Jones dei Cardiacs. È rock il basso di Ben Harris che rivolta le budella a ogni colpo.

Fat Dog

Sono rock i subwoofer nel sottopalco che sembrano essersi spostati da soli per la potenza di fuoco della band. È rock il polverone che si alza senza soluzione di continuità per tutto il loro set. È rock il balletto surreale di Chris Hughes e Morgan Wallace durante la prima parte dell’indiavolata ‘Running’. Ma non è solo rock: è talento allo stato puro, genialità nelle commistioni tra generi e mondi sonori apparentemente agli antipodi, originalità della scelta dei suoni.

Quando mi sembra di riconoscere l’utilizzo di un emulatore del VCS3, riparte il mio personale mantra: “quando in Italia una band suonerà in questo modo, fatemelo sapere”. Già vedo le dita alzate ad ammonirmi che la nostra tradizione musicale è altrove. Vero, ma sticazzi della tradizione. La grande bellezza dei festival si conferma l’arrivare presto per scoprire e godersi i talenti che infrangono ogni regola e tradizione con spontaneità, sfrontatezza e prima che cadano in tentazioni ruffiane. Per ora i Fat Dog sono i vincitori di questa due giorni. Spoiler: lo resteranno.

Attaccare pochi secondi dopo una performance di questo tipo è dura per chiunque. L’arduo compito spetta a Emma Nolde, polistrumentista e cantautrice toscana. Che avesse spessore artistico me ne accorsi alcuni anni fa, la ritrovo oggi con maggiore personalità, consapevolezza e più centrata nell’intonazione, al tempo l’aspetto meno convincente. Ha virato con decisione verso il pop elettronico, il primo pezzo è da sola davanti a un a un sampling pad, solo suoni di batteria e voce potente e piena. Poi arrivano sassofono e violoncello. Produzioni sono potenti e con personalità, le espressioni del suo viso grintose. Non si risparmia Emma Nolde, padrona della scena e del suono. Il climax è l’esplosione finale di ‘Respiro’ e imbraccia la chitarra per un assolo carico di saturazione da humbucker.

Emma Nolde

Più intima e malinconica in chiusura di set, con ‘Te Ne Sei Andata Per Ballare’, dedicata alla sorella andata via di casa quando era ancora bambina. arpeggiando la chitarra con le svisate del violoncello sul registro alto. Ha mantenuto ogni promessa, è sbocciata  In due giorni, lo Spring Attitude Festival ha ospitato Marta Del Grandi, Daniela Pes, Emma Nolde. Tre artiste diverse, tre eccellenze italiane, tre oasi. Teniamocele strette

Teniamoci stretti anche Bobby Joe Long’s Friendship Party. Bizzarro quanto geniale incontro tra metal, prog, industrial, dark wave anni Ottanta e il cinismo fatalista e provocatorio della periferia est di Roma. Henry Bowers, il frontman, vocalist e autore dei testi, indossa una maglia nera con un faccione di un Bettino Craxi all’apice della fama e della forma. Sottotitolo di questa è la chiosa di una barzelletta che tratta di cavalieri bianchi e neri. Accanto a lui, una trinità di musicisti eccellenti, indossano inquietanti maschere, a metà tra BDSM, maquillage dei Kiss, e celebrazione massonico/esoterica. Sono Arthur Ciangretta alle chitarre, Peter Spandau al basso e Donald Renda alla batteria. E no, non sono i loro nomi registrati all’anagrafe

Ma non pensate a goliardia, cazzeggio o demenzialità. L’ironia è cosa seria, ed è un modo di farti a prendere a schiaffi dalla realtà cruda, senza senso immediatamente emergente, a volte nichilista e disperata, di chi cresce tra Casalbruciato, Portonaccio, Ponte Mammolo. Gordiani. Tra allarmi aerei, estratti da ‘Masked Ball’ di Jocelyn Pook, sonorità inquietanti e tirate allo spasimo.

Bobby Joe Long’s Friendship Party

“Aoh!” è il loro quarto lavoro, nel quale i suoni synth pop e new wave di 40 anni fa sono stati ottenuti ricorrendo a reali strumenti dell’epoca. Si potrebbe quasi scomodare il teatro-canzone. Testi recitati, un flusso di coscienza con associazioni ardite e apparentemente non senso. Pietro Maso, sassi dal cavalcavia, teste rasate, bryanferrismo, banditismo Laura Palmer. E così via in un profluvio di parole . La citazione “Se fosse per me, sui muri, solo cazzi, fregne e stronzo chi legge” è già letteratura e inizia ad apparire sui muri di Roma.
Una band da ascoltare e riascoltare con la massima attenzione, non solo dal vivo.

Sui bar italia non spendo tante parole. Una delle band esplose lo scorso anno sulla scena internazionale. Estate sui palchi più prestigiosi d’Europa, Glastonbury su tutti. Ero rimasto abbastanza deluso nel loro concerto al Monk del settembre 2023. Concerto per nulla all’altezza dei lavori in studio, dove si continua a sentire l’importanza decisiva di Marta Salogni in produzione. Oggi forse è anche peggio. Suoni sbilenchi, chitarre scordate, volumi sbagliati, piattume. Suonavo meglio io, e non è un’iperbole. Le voci spariscono, approssimazione, presenza debole. Non bastano l’avvenenza e le movenze della vocalist, Nina Cristante, che si fa invece ricordare per un arrogante e gratuito attacco al tecnico delle luci. Protesta che le avrei concesso se prima si fosse preoccupata di imparare a cantare. Band molto sopravvalutata, che necessita di un bagno di umiltà. Andiamo a mangiare, è meglio

bar italia

Vedo un live di Motta per la terza volta in meno di un anno. Il tour è lo stesso, la formazione anche. Non ci sono grandi differenze, sempre efficace e non c’è molto da aggiungere a quanto scritto tempo fa. Unica differenza: l’ospitata sul palco di Andrea Appino degli Zen Circus, storico amico, e di Danno del Colle Der Fomento. Salutano il pubblico suonando ‘Minotauro’, brano della storica band rap romana. Prima di salutare tutti, annuncia un nuovo disco per novembre con successivo tour.

Se oggi dovessi trovare una personificazione dell’archetipo della rockstar maledetta, Sebastian Murphy, cantante e frontman degli svedesi Viagra Boys. “Ha 34 anni, ma pare mio zio” è la frase ricorrente che circola tra il pubblico. Lattina di birra in mano, tuta nera dell’adidas, torso nudo interamente coperto di tatuaggi.  ma a colpire è la scritta tatuata sulla fronte, e che dà il titolo a ‘Punk Rock Loser’ uno dei loro brani di punta.

Voce come carta vetrata, la versione punk di Tom Waits, saluta il pubblico con un “Buongiorno Motherfuckers”, poi ricorda l’importante invenzione delle toilette ad opera degli antichi romani. Sembra in diversi momenti non riuscire a tenere la scena, accartocciato su sé stesso, mentre intorno a sé, la band si scatena con sonorità post-punk senza tregua, ritmiche ossessive e martellanti, soprattutto durante le due prolungate assenze di Sebastian dal palco, che fanno sorridere la metà maliziosa del pubblico, e preoccupare il restante 50% di ansiosi.

La folla li acclama e si lascia trascinare. Sono una macchina da rock i Viagra Boys, violenta a dispetto delle tematiche dei testi, incentrati sulla condanna senza appello di omofobia, mascolinità tossica, violenza di genere e discriminazione delle minoranze. Hanno energia da vendere e probabilmente se stessi metro più vicino al palco sarei in stato di esaltazione, con una lucidità parzialmente alterata. Loro eccezionali, io realizzo come sia oggi imprescindibile nell’alternative la commistione tra elementi punk e dance, con una doppia mano di elettronica. Senza disdegnare la presenza di un sax con funzione soprattutto sperimentale e rumoristica.

C’è necessità di riportare le pulsazioni cardiache e la frequenza respiratoria a valori normali. Ci pensano i Mount Kimbie.  Originariamente duo inglese, composto da Kay Campos (Chitarra ed elettronica) e Dom Maker (Voce ed Elettronica), allargatosi con l’entrata di Andrea Balency-Béarn (voce ed elettronica) e Marc Pell (batteria). Si aggiunge nel set di stasera la presenza al basso di Tyra Ornberg, con la band nel tour 2024, che li ha visti anche sul palco di sua maestà Glastonbury.

Mount Kimbie

Musica da assaporare restando in silenzio e lasciando che la propria vibrazione interiori si sintonizzi sulla stessa frequenza della musica della band, o su un multiplo esatto. Eleganza, cura dei dettagli sonori, inserti pentatonici con sonorità orientali, campionamenti di piano. Brani ipnotici che traggono dal minimalismo parte della loro fonte di ispirazione. Un togliere e riempire, equilibrio tra vuoti e pieni, planate e giravolte con le voci maschili e femminili di Dom e Andrea ad andare insieme a braccetto.
L’ultima parte cambia la qualità dell’energia, più tirata e martellante con suoni cosmic o krautrock, e l’inconfondibile motorik a 150 bpm o forse più.

Mi guardo intorno e mi accorgo di come lo Spring Attitude Festival accolga la parte migliore del pubblico di appassionati e fan della musica. Giovanissimi, giovani e diversamente giovani, con voglia di ricercare, scoprire e scegliere in autonomia cosa ascoltare con mente e cuore aperti. Un festival dal respiro internazionale, libero dal provincialismo trappettaro e nazional-popolare sanremese. Una manifestazione che ricerca e propone qualità, e fa cultura. In Italia, oggi, serve come non mai.

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