Sons of Kemet, un messaggio disegnato dal vento nella sabbia del deserto
Elementi free jazz e afrobeat colorano la capitale
I Sons of Kemet alla Casa del Jazz, ultimo tour per la band che chiude una parentesi lunga dieci anni
«Non eravamo mentalmente preparati a tutta questa gente», scherza, ma non troppo, un’esausta e sorridente addetta dell’organizzazione.
Sono stati millecento a riempire ogni spazio possibile della Casa del Jazz di Roma, per assistere alla performance dei Sons of Kemet, confermando il loro status di punta di diamante della scena jazz londinese ed europea.
Sold out i posti a sedere, in molti si sistemano in piedi ai lati del palco e della platea.
Per l’occasione, la band si presenta con una novità in formazione: al posto di Tom Skinner, coinvolto al 100% nel progetto The Smile, dietro una delle due batterie siede Jas Kayser, giovanissima, ma già con un curriculum musicale alle spalle di tutto rispetto e che non farà rimpiangere l’illustre assenza.
Per il resto la line up è quella di sempre: Theon Cross al basso tuba, Edward Wakili Hick alla seconda batteria e il deus ex machina Shabaka Hutchings al sax tenore.
L’importanza dell’appuntamento è accresciuta dopo la dichiarazione del leader Shabaka Hutchings, che ha confermato lo scioglimento della band al termine di questo tour mondiale.
Il viaggio è giunto alla conclusione, dopo dieci anni e quattro lavori in cui i Sons of Kemet hanno saputo con mirabilia fondere elementi free jazz e afrobeat con atmosfere e ritmiche caraibiche, calando il tutto nella contemporaneità delle lotte del movimento Black Lives Matter e dei diritti civili di qualsiasi minoranza discriminata.
E che la musica deve essere strumento di lotta e di presa di coscienza civile viene subito esplicitato.
Il live si apre con ‘In Memory of Samir Awad‘, un ragazzo palestinese ucciso da soldati israeliani nel gennaio 2013, mentre con alcuni amici stava festeggiando la fine del semestre scolastico.
È sufficiente l’attacco delle due batterie perché la serata diventi ancor più rovente di quanto le condizione climatiche non la rendano già.
Il suono del sax tenore di Shabaka Hutchings è potente, carico di riverbero, spazioso, porta con sé colori, atmosfere e fragranze mediorientali.
Un suono che nasce nel deserto egiziano (Kemet è il nome con cui anticamente si indicava proprio la terra dei faraoni), attraversa il Sahara da Est a Ovest, fa tappa nel Golfo di Guinea, sorvola l’oceano e si carica della furia nera e rivoluzionaria dei ritmi caraibici e, dopo aver ripercorso la diaspora delle popolazioni dell’Africa, solo alla fine plana sulla vecchia Europa a scuotere le coscienze con l’orgoglio e la dignità di chi, in qualsiasi angolo del mondo, lotta per riconoscere i propri diritti.
Già dopo i primi minuti del concerto è immediato come lotta di liberazione dei Sons of Kemet passi necessariamente attraverso la danza e la liberazione del corpo. “Questa fiammata nera è danza, questo dolore nero è danza, queste preghiere nere sono danza, questa lotta nera è la danza”, così recitano le parole di Joshua Idehen a chiusura di “Black for the Future”, il loro ultimo lavoro.
Allora la distesa ordinata di posti a sedere potrebbe essere un segnale rivelatore che, quantomeno in alcuni casi, il messaggio non sia pienamente compreso da chi possiede un background storico e culturale diverso.
La musica dei Sons of Kemet si ascolta e si comprende appieno con il corpo, abbandonando i nostri paradigmi di riferimento e il nostro posto di spettatori paganti, comodamente seduti, raccogliendo l’invito della band e iniziando a danzare con loro e per loro.
Ciò non accade, e forse sarebbe stata da rivedere la scelta di occupare lo spazio davanti al palco con posti a sedere.
Ma la band non sembra risentirne.
Shabaka e compagni non stanno a bearsi tra i tanti applausi a loro riservati e brani si susseguono l’uno dopo all’altro senza lasciare troppo tempo al pubblico di razionalizzare quanto accaduto.
Hutching è il frontman, ma le vere protagoniste sono le percussioni.
Jas Kayser prova con la band da pochissime settimane, ma sembra una veterana.
La sua intesa con Eddie Hick appare collaudata e fluida.
I due si incastrano alla perfezione senza sovrapporsi, la batteria con il doppio rullante è un marchio di fabbrica dei Sons of Kemet, e chi ha trovato posto in piedi ai lati del palco e in fondo alla platea, ha il privilegio di abbandonarsi a danze liberatorie in un’orgia coreutica che lascia poco tempo per respirare.
Certo, non c’è l’impatto dei testi in spoken word o rappati presenti nei dischi in studio, ma la mancanza si sente solo fino a un certo punto.
Il sax di Shabaka giganteggia, è l’arco voltaico che fa scoccare la scintilla, il drumming di Jas ed Eddie fornisce il combustibile, il basso tuba di Theon Cross è il comburente che li fonde insieme.
Il risultato è l’incendio della serata, in fondo è sono semplici leggi della chimica e della fisica.
Lo spettacolo è una summa della loro carriera.
Dodici brani, con a far da ponte tra un pezzo e il successivo, intermezzi improvvisativi.
Paradossalmente, ma nemmeno troppo, il momento di climax energetico lo si raggiunge in un momento di quasi totale assenza di suono, quando, in coda a ‘Pick Your Burning Cross‘, Hutchings chiude gli occhi si abbandona ad un lungo solo di flauto africano.
Il concerto termina dopo circa un’ora e tre quarti.
Il bis non può non essere che ‘Afrofuturism‘, un manifesto artistico e politico dei loro dieci anni di carriera e un testimone da lasciare a chi verrà dopo di loro; i Sons of Kemet dichiarano concluso il loro percorso musicale, ma il messaggio resta indelebile, disegnato dal vento nella sabbia del deserto.
E tutti si alzano in piedi per ballare.
Meglio tardi che mai.