Lo stordimento come filo conduttore: Slowdive live ad Azzano Decimo (PN)
La line-up della serata di apertura della Fiera della Musica di Azzano Decimo, edizione 2015, appare da subito caratterizzata dal contrasto e dalla complementarità. I due gruppi che si alternano sul palco sono molto diversi tra loro nello stile e nelle influenze, appartengono a epoche differenti e affondano le loro radici in terreni distanti, paiono avere unicamente in comune l’origine inglese, eppure non è per nulla un azzardo la scelta di proporre in sequenza le Savages e gli Slowdive.
Le sonorità secche, diritte e ben scandite delle Savages, con il basso a trainare quasi tutti i pezzi, si contrappongono a quelle eteree e ovattate, distorte e distanti degli Slowdive, in cui le chitarre rivisitate dagli effetti regnano incontrastate. Il tempo ben definito e lo spazio soffocante delle prime si scontra con l’assenza di tempo e di spazio dei secondi. E se Neil Halstead non solleva quasi mai lo sguardo dalla pedaliera e dalle proprie scarpe e Rachel Goswell quando non ci deve mettere la voce sembra arretrare per non dare nell’occhio, abbiamo invece l’esuberanza di Jehnny Beth che si concede letteralmente dei bagni di folla e la presenza silenziosa ma imponente di Ayse Hassan sempre in prima linea e fronte al pubblico.
Le Savages si trovano ad affrontare una platea che sulle prime non appare particolarmente calda, nonostante si giochino in apertura due brani spinti come ‘Shut up‘ e ‘City’s full‘. Potrebbe apparire quindi un azzardo a questo punto virare su canzoni non estratte dal primo e sin qui unico album, ma con il carisma, la voce e la presenza scenica, miscelati a un tiro micidiale senza mai un calo, il coinvolgimento funziona e le prime file rispondono bene agli stimoli. Arrivano due brani presentati come nuovi e già proposti altre volte negli ultimi mesi, ‘Sad person‘ e ‘Adore‘, il parlato aggressivo di ‘I need something new‘ e anteprime dell’imminente secondo album i cui titoli (‘The answer‘, ‘Slowing down the world‘) sono stati -forse- svelati nei mesi scorsi ma il cui abbinamento è tuttora incerto.
È qui che Jehnny Beth imprime l’accelerata, salendo in transenna e aizzando la folla per lanciare la chiusura infuocata con ‘Husbands‘ e ‘She will‘ a scuotere le teste, prima del finale con la classica ‘Fuckers‘, preannunciata da un simpatico siparietto in linea con il personaggio (“Non fatevi inc**are“, in un perfetto italiano e tra l’ilarità generale). Una pecca apparsa evidente in un’esibizione per il resto molto valida è il suono poco pulito della chitarra di Gemma Thompson, gracchiante e poco incisiva, per problemi forse di materiale o di amplificazione, se non di esecuzione.
Non ci si dilunga troppo nel cambio di palco, lo stage si presenta essenziale con gli amplificatori a farla da padroni e una scritta bianca su sfondo nero come unico elemento scenografico, a scandire il nome dello storico gruppo che fa capolino alle 23 precise, come da programma: gli Slowdive. Nessuna presentazione e nessun saluto, lasciano l’apertura al brano che porta il loro nome ed è tratto dal loro primo EP, anch’esso eponimo, con un riverbero quasi melodico che lascia poi spazio alle atmosfere più sognanti di ‘Avalyn‘.
Giunge il momento per Rachel Goswell di posare il tamburello e imbracciare la chitarra e inizia a costruirsi quel muro di suoni che shoegazers militanti o simpatizzanti di tutte le età stanno attendendo con trepidazione. È unicamente nei momenti di cambio strumenti che Neil Halstead interloquisce timidamente con la platea, con lo stesso entusiasmo di uno scambio di parole forzato nell’ascensore, in attesa di tornare a distorcere la chitarra con la testa bassa e lo sguardo all’ingiù.
Arriva ‘Catch the breeze‘ dal loro primo disco, saltando al terzo e ultimo con ‘Crazy for you‘ per poi far esplodere ‘Souvlaki‘, impalpabile nei pezzi più soft come ‘Machine gun‘, aggressivo in modo disarmante quando il tiro si alza e i suoni riempiono il palco con ‘Souvlaki Space Station‘ e ‘When the sun hits‘. Il riverbero si fa consistente, acquista spessore e pare quasi di respirarlo, può sembrare quasi greve ma ci vuol poco ad assuefarsi. Ci si rabbuonisce un po’ passando attraverso quanto di più simile a un singolo abbiano prodotto gli Slowdive, ‘Dagger‘ e ‘Alison‘, con il pubblico in visibilio, ma per chiudere ci si affida ancora alla massima distorsione, alle pedaliere usate con la precisione di un chirurgo e la brutalità di un macellaio, il crescendo di ‘Golden hair‘ accompagna prima la voce femminile fuori dal palco, lasciando infine che l’amplificazione si fagociti tutto. Le luci si spengono col palco vuoto e le casse ancora vibranti, non viene regalato nessun bis ma l’impatto emotivo è forte e nessuno si sente in diritto di reclamare per la relativa brevità dell’esibizione.
Di qua un gruppo figlio di questo decennio che coinvolge e che ti frusta come fanno le Savages, di là gli Slowdive che sono esplosi e si sono dissolti più di vent’anni fa e che ti accarezzano e al tempo stesso ti pervadono, privandoti di ogni riferimento spaziale e temporale. Due esperienze contrapposte e affini, lo stordimento come filo conduttore, a dirci che il post-punk immutabile e lo shoegaze ineluttabile non passeranno mai.