Slowdive live a Milano: assorbimi, rapiscimi, trascinami
Ancora qui, ancora in Italia, ancora a Milano: gli Slowdive passano dall’Alcatraz, il 4 marzo, per rinverdire i fasti dei primi anni ’90 e proporre i brani del loro disco di ritorno, che porta il loro stesso nome e che ha segnato una delle tappe del ritorno in voga dello shoegaze tutto d’un pezzo.
I Dead Sea arrivano da Parigi per aprire la serata, su un palco colorato di blu che viene impreziosito da suoni semplici, volumi alti, un fondo di drum machine e riverberi accennati.
Su una base marcatamente artificiale portano chitarre e basso lineari e una voce vagamente etera, di estrazione a metà tra indie folk e dream pop.
Spaziano da loop confortevoli su pezzi più vibrati a tempi più lenti di un electropop molto di tendenza.
Su queste variazioni i Dead Sea giocano tanto e bene, trasformando brani normali attraverso la costruzione di bei muretti di suono, e chiudendo con addirittura un po’ di verve in stile french touch.
Dalla Francia ci spostiamo a Reading, quando tocca agli Slowdive fare la loro entrata, in punta di piedi ma in totale pienezza con ‘Slomo‘. Accendono poi le pedaliere, prendono ritmi bandi e si inizia a fare lo stress test all’impianto. Distorcono poco, ma consumano un sacco di watt, quando annunciatissima arriva ‘Star roving‘, in perfetto equilibrio su un tempo in rincorsa e con un bridge davvero potente.
Non c’è nulla di impalpabile in questo avvio degli Slowdive, ma una grande concretezza.
Neil Halstead si nasconde come da suo costume ma si fa sentire, e sempre da copione tocca a Rachel Goswell brillare al centro della scena.
Si fanno sentimentalmente devastanti, portando le distorsioni e appesantendo l’aria, carica di suoni e volumi.
Su uno sfondo di cerchi concentrici, ‘Catch the breeze‘ è soffice e allucinante, a tratti spigolosa e con una chiusura pazzesca.
Ora il motto degli Slowdive sembra essere: qualunque cosa tu stia suonando, l’importante è che lo suoni forte. Rachel Goswell si prende una manciata di secondi per una pubblicità progresso, pregando fermamente di spegnere le sigarette impropriamente accese tra il pubblico per non peggiorare la sua condizione di asmatica.
Viene distorto pure il tempo, a sto giro, mentre ‘When the sun hits‘ ha un inizio vibratissimo e prosegue senza sfondare il tetto, mantenendosi sulle corde di un pezzo amabile e lasciandosi andare sul finale, salvaguardando comunque i timpani.
La vena soft degli Slowdive si sente anche con ‘Alison‘ dal tempo vivace, in una sorta di rivisitazione pop dai contorni marcati dell’intero album “Souvlaki”, nonostante l’abuso di chitarre.
Il suono dei pezzi nuovi, come la rilassata ‘Sugar for the pill‘, non va in escalation verso un livello superiore, è complesso e strutturato ma rimane su questo pianeta.
La chiusura di set arriva con un attacco spettrale, con Rachel Goswell al centro della scena.
Quando poi abbandona stage, il sound decolla, nonostante ci sia qualche cassa gracchiante a farci esclamare “mannaggialaputtana“.
È comunque un tripudio, un’esecuzione da manuale da mostrare e far sentire a dovesse chiedersi in cosa consista il genere shoegaze (che non è un vero genere, come ci tengono a sottolineare gli adepti).
L’encore degli Slowdive è essenziale nei modi ma notevole nell’impatto, ‘Dagger‘ ha un taglio quasi acustico, con molte plettrate e parecchia voce, all’opposto ‘40 days‘ che si carica sin dall’attacco, con il cantato che rimane quasi sullo sfondo nascosto da chitarre tiratissime.
Ci sono concerti che assorbono, rapiscono e trascinano.
Ecco, quello degli Slowdive è proprio uno di questi casi, uno show di un’ora e mezza che vorresti ne durasse invece sei o sette.