Roma Summer Fest 2024 | Glen Hansard
Sono le 21:10 quando Glen Hansard sale sul palco avvolto dall’oscurità della Cavea.
La serata si apre con l’intima e poetica ‘Looking for Someone’ degli Interference, band di Cork il cui leader Fergus O’ Farrell era un grande amico di Glen. Il concerto sale subito d’intensità con ‘Sure as the Rain’, estratto dall’ultimo album in studio. “All That Was East Is West of Me Now” è caratterizzato dall’ineluttabile sentimento dello scorrere del tempo e dalla consapevolezza che ogni momento è unico e irripetibile.
Proprio come un’esibizione live, la resa dal vivo è di una grazia sublime. I riferimenti a Leonard Cohen sono palesi nell’incedere armonico, nell’andatura in valzer e nell’uso della voce, declinata anche in francese. D’altro canto, il bardo dublinese ha confermato di avere acquisito la consapevolezza di volere essere un musicista proprio durante un concerto di Cohen, visto a Dublino quando aveva 15 anni.
Fin da subito è chiara la necessità di comunicare, di entrare in connessione non con una sola persona, ma col tutto.
«Lo fai per stare assieme a gente simile a te, e che come te ha una domanda nel cuore», dice Glen.
Il concerto prosegue con l’incedere del giro di basso di ‘Down on Our Knees’, brano che ricorda i Pixies ma arricchito da un assolo di violino distorto che crea un’atmosfera straniante, per proseguire con la batteria di Earl Harvin, musicista americano di formazione jazz dalla grande sensibilità soul, che dilaga in ‘The Feast Of St. John’, brano che apre l’ultimo disco. Si tratta di un rumoroso pezzo di magia apotropaica ispirato ai falò accesi sulle verdi colline d’Irlanda, per celebrare la festa del santo omonimo con il suo refrain «monsters, monsters be gone» un sorta di rito propiziatorio rock. Il brano, arricchito in studio dal violino di Warren Ellis, vede nel live Glen abbracciare la sua Special 1965 Fender Jaguar nera.
C’è qualcosa di antico nel piazzarsi al centro dell’attenzione e cantare, un istinto primordiale che ci riporta a quando gli uomini erano cacciatori/raccoglitori e si radunavano attorno al fuoco a sentire storie. È qualcosa di primordiale. Ecco, la musica dal vivo è primordiale, è connessione e scambio.
La serata prosegue in un crescendo di emozioni che trovano il culmine nella cavalcata folk di ‘Fitzcarraldo’, brano del 1996 dei The Frames, prima band fondata da Glen Hansard negli anni ’90, in questo tour europeo accompagnato proprio dai compagni di band Joe Doyle e Rob Bochnik, rispettivamente bassista e chitarrista dei Frames. Il brano è caratterizzato da un tradizionale assolo di violino tipicamente irlandese di Garet Quinn Redmond.
A seguire la romantica ‘Don’t Settle’ dall’album precedente “This Wild Willing” del 2016, per passare poi all’ipnotica “Ghost” introdotta dal violino e dalla ieratica presenza di Glen avvolto da nubi di ghiaccio secco. Ed è qui che sembrano prendere corpo le parole di Glen Hansard che spiega il suo processo creativo affermando che «le canzoni le devi andare a prendere in posti poco illuminati. Per scriverle, devi spingerti in luoghi torbidi. E addentrarsi troppo in quel tipo di esperienza non fa bene alla vita quotidiana, alla vita normale. Entri in contatto con le ombre».
C’è ancora tempo per ‘My Little Ruin’, dall’album “Didn’t He Ramble” del 2015 e per la van morrisoniana e soul ‘Time Will Be The Healer’ dall’album “Between two shores” del 2017. Sulle note di ‘American Townland’ sale sul palco il giovane figlio di Marc McDonald, altro personaggio legato agli Interference. Poco dopo, come se fossimo in pub irlandese, Glen chiama sul palco il fratello Richard ed insieme cantano ‘Young Hearts Run Free’, pezzo preferito dalla loro mamma.
Giunti oltre la metà della scaletta l’atmosfera si fa più intima, con Glen Hansard seduto a bordo palco in un ipotetico abbraccio con il pubblico della Cavea e il resto del gruppo disposto a semicerchio intorno a lui per un set acustico veramente unplugged, senza uso di amplificazione. Solo chitarre acustiche (la fedele takamine con top in cedro per Glen), il violino di Garet e il contrabbasso di Rob. Suonano ‘Say It to Me Now’ in accordatura aperta open E, a seguire ‘Gold’ in open E5.
Il bisogno di creare connessione è evidente come per ogni busker. Riprendendo le parole di Glen in una recente intervista:
«Ero un musicista di strada, la comunicazione è tutto per me. Il pubblico è metà dell’esperienza. Il pubblico vuol vedere qualcosa di reale, vuole la verità, qualcosa che avvenga in quel momento. Quando sia il performer che il pubblico sono in sintonia è come se entrasse un terzo elemento, chiamala magia».
E nel caso del concerto al Roma Summer Fest è proprio magia la parola giusta, quella che si è creata sulle note arpeggiate della stupenda ‘Falling Slowly’ introdotta dalla dedica alla coautrice Markéta Irglová, (che gli valse il premio oscar per la colonna sonora di “Once”), le cui parti vocali sono state cantate stasera dalla tastierista svizzera Mya Audrey, seguita da ‘When Your Mind’s Made Up’, sempre a firma del duo.
Dopo 2 ore e venti la serata si chiude con il pubblico sotto al palco e Glen Hansard, scatenato sulle note di ‘Her Mercy’, balla in un abbraccio collettivo con il pubblico di Roma. È come in preda ad un’estasi dionisiaca e ballando durante l’esecuzione di ‘This Gift’ si rovescia una bottiglietta di birra in testa come alla fine di un rito iniziatico. Acclamato, torna per chiudere sulle note della stupenda ‘The Moon’ degli Swell Season, il gruppo composto da Glen e Markéta.
Il concerto è finito e a pensarci bene la parola concerto vuol dire proprio intesa, armonia.
«Io e voi insieme che facciamo qualcosa “di concerto”. Non sono dischi: succede qualcosa e un momento dopo quel qualcosa non c’è più. Sali sul palco, suoni per due ore e quel momento svanisce, per sempre».
Finito come un incantesimo.