Roma Summer Fest 2024 | Gary Clark Jr.
LE CONTAMINAZIONI BLACK DI GARY CLARK JR. FANNO TAPPA A ROMA
Il chitarrista statunitense protagonista al Roma Summer Festival
Roma, 12 luglio 2024
Dopo Christone “Kingfish” è la volta di Gary Clark Jr., seconda tappa consecutiva della mia personale immersione nella musica nera americana. È reduce dall’esibizione a Gardone Riviera, in cui ha duettato proprio con il venticinquenne di Clarksdale, astro nascente del Blues. Il quarantenne texano sbarca a Roma, tappa del suo tour mondiale per promuovere la sua ultima uscita. “JPEG RAW”, titolo che gioca con l’acronimo di Jealousy, Pride, Envy, Greed, Rules, Alter-ego, Words. Sbocciata con la primavera, vanta i trascurabili featuring di Stevie Wonder e George Clinton. È un lavoro che fa la parte del leone nella setlist di stasera, con undici brani sui sedici eseguiti. In esso, l’artista ha espanso ulteriormente la sua ricerca sonora all’interno di sonorità e timbriche rock, blues, r&b, jazz, soul, afro e hip hop.
A dimostrazione di quanto quest’ultimo genere sia stato fonte di ispirazione è l’intro (‘Turn It Up, Give It Up’, del rapper e producer Stro Elliot) sulla quale entra, accompagnato da una nutrita band: tre backing vocals, J.J. Johnson alla batteria, Dayne Reliford al synth programmazioni e tastiere, Elijah Ford al basso e il suo alter ego alla chitarra, King Zapata, al quale concede spesso e volentieri la scena. A completare il tutto, le sue tre sorelle, Shawn, Savannah e Shanan, alle percussioni e ai cori. Insomma, resta tutto in famiglia.
Ed è tratto da “JPEG RAW” il pezzo di apertura: ‘Maktub ’, parola araba che si traduce con così è scritto. È un brano in cui è forte la presenza di influenze afro, sia nell’andamento ritmico tribale, che nelle frasi ostinate alla chitarra. Il deserto del Mali, ancor più reso rovente dalle valvole degli ampli Fender, dagli overdrive e dai fuzz, che fanno deflagrare il suono. Il tutto avvolto da rade nubi dal vago sapore psichedelico. Lo anticipo ora, tra tutti è il brano che mi ha preso il cervello e me lo ha shakerato a dovere.
A seguire uno dei rari momenti di puro blues della serata: ‘When My Train Pulls In’. La stagnazione di una vita in cui nulla cambia mai, la speranza affidata a un treno, la rabbia di chi sta perdendo la partita con la vita affidata a un pedale fuzz. Si rimane all’interno di un mondo sonoro simile con ‘Don’t Start’ e un attacco di slide elettrico che più rock blues non si può. Poi, con la title track del suo ultimo disco, ci regala la prima inversione a U della serata. Jazz, hip hop e soul si fondono e si avvolgono in un brano ipnotico, dall’andamento a spirale.
Venature soul e jazz anche nell’incedere martellante di ‘Hyperwave’, per poi far affacciare la maestosità e l’imponenza dei chitarroni hard rock in ‘This Is Wo We Are’. ‘To The End of the Heart’ è un breve intermezzo intimiste solo chitarra e voce, mentre l’eleganza di ‘Alone Together’ incanta, ma non mi coinvolge appieno.
Dura poco perché la scarica di adrenalina arriva con ‘What About The Children’, che fa alzare in piedi il pubblico della platea per trascinarlo sotto al palco. Era ora. Così come sarebbe ora di piantarla con i posti a sedere in certi concerti. Non solo per il pubblico che ama ballare, ma anche per gli artisti, amano il contatto con i loro fan e detestano suonare per belle statuine viziate, oppure costrette a essere ingessate su comode poltrone. Prima o poi, la soluzione di Billy Joel, che acquista i biglietti delle prime file dei suoi concerti, per poi regalarli ai suoi fan, sarà adottata da altri
Il falsetto di ‘Feed the Babies’ sfocia in una coda improvvisata ad libitum, articolata su un unico accordo e sulla quale impazzano vorticosi il piano e le tastiere. ‘Triumph’ è un vero e proprio trionfo di chitarre; una Gibson Sg, una Les Paul e la sua Stratocaster a completamento del trio.
‘Our Love’ è una sintesi del Gary Clark Jr. pensiero. L’intro di Stratocaster apre a una prima parte che gira su arpeggi di accordi maggiori. Rimandi al rythm and blues anni ’50, che pian piano si dissolvono insieme alla batteria e il basso, per lasciarlo solo con la sua Fender, i suoi respiri e il pubblico. È il momento più intenso del concerto. Finché il classico suono Stratocaster, cristallino e pulito, acquista sempre più spessore fino a saturarsi ed incendiarsi con tutta la band. Ma quando ti aspetti un finale imponente, la sorpresa è un accordo minore che lascia a tutti un dolceamaro in bocca.
‘Bright Lights’ è un calcio in faccia alla malinconia. Potentissima e martellante, i livelli dei fuzz sono al massimo. Eccellente King Zapata con un solo che è un racconto hendrixiano, se non nel suono, quantomeno nel fraseggio, nella costruzione, nello sviluppo melodico e nell’epilogo. ‘Habits’ chiude la prima parte, una cascata di note e una coda a sfumare, a partire da un arpeggio in 6/8 stoppato e la mescolanza della sua voce con quella delle sue sorelline.
‘You Saved Me’ apre il bis. Un riff di chitarra sul registro basso accattivante ed efficace. Un contrasto tra l’atmosfera oscura e nebbiosa e la voce in falsetto che galleggia su di essa. E nel suono del solo finale ritrovo echi gilmouriani, ma l’ultima immagine che si forma nella mia mente è quella di Vernon Reid, dei mai dimenticati Living Colour. Ci lascia con la raffinatezza di ‘Funk Witch U’. Un mix di suoni rock e voce inconfondibilmente “nera”, che lascia poi l’onere della chiusura al resto della band,
Contaminazione è la parola chiave per approcciare, comprendere e apprezzare la versatilità della produzione dell’artista Texano. Blues, afro, hip hop, jazz, rock, soul, funky formano, in un suo concerto, un mosaico sonoro variopinto, in cui i differenti linguaggi trovano un perfetto ed elegante bilanciamento. Raffinato là dove c’è da esserlo, aggressivo e ruvido dove serve. Non di rado ama giocare sulla commistione contemporanea e sul contrasto che ne deriva.
Per il mio gusto, si fa preferire nelle sfumature più afro e blues/rock. I pezzi più carnali, ruvidi, con la saturazione potente delle chitarre che fa da protagonista. I soli, suoi e del secondo chitarrista, sebbene sia costruiti e portati avanti senza perdersi in virtuosismi superflui e stucchevoli e non sono mai pesanti, ridondanti e prolissi. Meno coinvolgente, secondo me nei brani più a matrice soul, ma ho il dubbio sia dipeso dall’acustica dell’impianto che ha la sua vocalità. Stesso discorso per le voci femminili che avrebbero meritato di esser messe più in risalto.
Ma ogni chiacchiera, recensione, analisi è messa a tacere quando il giorno scopro il suo profilo Instagram essere seguito da Perry Farrell. Questo si chiama stravincere, in barba a “L’Arte Della Guerra”.