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Rock In Roma 2024 | Club Dogo

IL RITORNO DEI CLUB DOGO ARRIVA ANCHE ALL’IPPODROMO DELLE CAPANNELLE

In una rovente serata l’atteso ritorno del gruppo milanese che ha fatto la storia dell’hip hop in Italia

Roma, 19 luglio 2024

Confesso di aver nutrito verso hip hop e rap il pregiudizio di molti rockettari. Ma con l’età ho varcato la soglia dell’utilizzare il verbo suonare con riferimento a chi, con creatività, maestria, originalità e gusto, manipola campioni e crea beat interessanti, e a chi fa altrettanto con il suono e la ritmica della parole. E quindi, stasera che sia Rock in Roma, che sia Club Dogo – se non per tutta la vita, almeno per le prossime ore.

Il loro rientro sulle scene, con il disco omonimo, a 10 anni di distanza dallo scioglimento ha avuto accoglienze discordanti. Chi ha applaudito al ritorno dei maestri dell’hip hop italiano, ma anche chi ha parlato di oculata operazione nostalgia, per un ritorno che nulla aggiunge a una significativa carriera. In questi casi mi affido alla prova del live: ascoltare suoni e musica, sensazioni ed emozioni; osservare il palco e il pubblico; infine, trarre le mie personali conclusioni. Leggo racconti entusiastici del loro concerto a San Siro di fine giugno. Forse qualcosa vorrà dire, per i loro fan accorsi in massa, per loro sul palco, e per me.

Ma la prima sorpresa è appena varcata l’entrata di Capannelle. Memore di quanto accaduto per il CCCP, mi aspettavo una gran risposta del pubblico. E invece scopro che suoneranno sul palco “piccolo”, la cui capienza, a leggere il sito della manifestazione, è di circa 3500 persone. Inevitabile il paragone con quanto accaduto due anni fa, quando una band di alternative rock come The Idles richiamò forse più persone. La seconda sorpresa è la possibilità di pagare anche con carte di credito e bancomat, oltreché con i famigerati token; allelujah.

Tra tutti i concerti che ho visto è forse quello con il pubblico più simile ai tifosi da stadio. Passa vicino a me un gruppo di quattro ragazzi con sciarpe bianconere con il cane a tre teste, logo della band. Le sciarpe mi sembrano di lana. La media complessiva dei tatuaggi pro-capite eguaglia quella dei più noti stabilimenti balneari di Ostia.

Club Dogo
Club Dogo: Don Joe, Jack La Furia, Guè

Alle 21.45 si fa buio e sul videowall una BMW con spoiler sul posteriore (che rende giustizia a tutti i tamarri di Quarto Oggiaro) disegna il loro logo su uno spiazzo di terra rossa a furia di testacoda e derapate. Poi arrivano loro: Gué pantaloni bianchi e maglietta nera; Jake La Furia, cappellino nero, maglietta nera e pantaloni neri hip hop style a metà polpaccio; Don Joe padrone della consolle, con logo luminoso del cane davanti.

Non sono posizionato molto vicino al palco e il suono arriva confuso e impastato. Ci vorrebbe più potenza e mi sembra strano: i bassi del beat sono altissimi rispetto alle voci. Fortunatamente l’audio è aggiustato dopo poco. Aprono con due estratti dall’ultimo “Club Dogo”: ‘C’Era Una Volta in Italia’ e ‘La Mafia del Boom Bap’. I bpm oscillano tra gli 84 e i 90. Un cuore appena accelerato, quelli che ci vogliono per “starci dentro”. Il palco si incendia, luci rosse a dominare e fiamme che incendiano la postazione di Don Joe.

Non c’è tempo per rifiatare tra un brano e l’altro, il ritmo ti sega in due il respiro. ‘Cronache di Resistenza’ è la loro denuncia politica datata 2003 fuori dai denti e senza abbassare la testa. Affidano al Franco Battiato di ‘Bandiera Bianca’ la loro denuncia. Tra figli del piombo e figli della bamba, tra BR e PR, «Ogni infame assassino è uno sbirro fedele al dovere fra’, dalle galere alle botte nelle pantere come è misera la vita negli abusi di potere!». A seguire sul videowall le immagini di una loro versione giapponese e quelle di un combattimento su “Street Fighter”, il videogame simbolo di un’era e di una generazione a lanciare ‘Voi Non Siete Come Noi’

‘Chissenefrega (in discoteca)’ è un’altra dichiarazione di intenti e un manifesto esplicito contro il modo di vivere dell’altra metà di Milano, quella pascolante in Corso Como e zone limitrofe. Autoreferenziali, ma ce lo si aspettava affermano, anzi ri-affermano dopo dieci anni l’identità loro e quella della loro gente. Perché lo ripetono, lo incidono, lo tatuano su pelle, cuori e teste dei loro fan. Il Dogo è per la gente.

«Il Dogo è per la gente […] per tutte quelle tipe che c’hanno il loro stile, non saranno le veline ma per me sono più fighe […]. Chi aspetta la sentenza aspetta il GIP […] chi ha i piedi di Ronaldo ma non va alla scuola calcio e ha imparato il doppio passo e la rabona sull’asfalto, chi è sotto per le fighe, chi è sotto per le righe. Chi ha gli occhi rossi fatti e chi ha gli occhi della tigre […] A chi era andato a Baggio per non fare la burba. A chi è senza maglietta col megafono in curva»
‘Per la gente’, Club Dogo

È un’identità profondamente radicata nelle periferie di Milano. Mi chiedo se sia il motivo per cui non vedo intorno a me la partecipazione e il coinvolgimento che mi aspettavo. È come se il parterre fosse diviso in due. Un pit e la parte subito dietro energeticamente nel concerto, il resto spettatore; apprezza ma sembra fermarsi su di un limite.

Allora mi sposto e vado avanti. Diverso punto di visione, diverso pubblico, cambia anche il concerto. E cambia quando chiedono di tirar fuori tutti i cellulari e di accendere le torce per un tributo extra hip hop. ‘King Of The Jungle’ è il loro recente omaggio al reggae, che ospita in “Club Dogo” il featuring di Alborosie. Si resta nella stessa atmosfera con ‘Note Killer’, e scorrono alle loro spalle immagini dei grattacieli e del Duomo di Milano con i colori della bandiera rastafari.

E da questo momento diventa un concerto pop. Il videowall mostra la schermata del Club Dogo Football Club. ‘P.E.S.’, e si canta come a un concerto pop. Poi una ragazza dai capelli biondi e gli occhi blu, che suona un pianoforte a coda bianco prima di puntarsi una pistola alla tempia.  ‘Lisa’ che “cresciuta per la strada assieme agli altri raga. Scopa, ma non ama e si spoglia soltanto per chi paga. Si fida solo dei soldi, non ha i capelli raccolti. Sotto i segni di chi conosce le maniere forti”. Arriva un pizzico di autotune, che nemmeno lo noti tanto, quel tanto che basta, a sentimento, a guidare un coro prevalentemente di voci femminili. Quante saranno le “Lisa” stasera, quante Nefertiti che non regneranno mai, ma alle quali per indossare una corona basta cantare ‘Fragili’ all’unisono con Arisa che fa anche lei la sua apparizione nel megaschermo sul palco.

Ma dopo questa immersione nel pop, il ritorno alle origini risulta meno credibile, in qualche caso eccessivo al punto da risultare prevedibile. È così per ‘Puro Bogotà’, con le strisce bianche di bamba sullo sfondo nero del videowall, una scheda telefonica dei bei tempi che furono, e i testi per il karaoke scritti sempre “con bianca su nero”.

Ma è anche così per ‘Spacco Tutto’, con le immagini didascaliche di un King Kong sui grattacieli e il coro finale «arriva la Polizia e ci portano via», con la Polizia, quella vera, beatamente in relax ai margini dell’area live. Chiudono la serata gli scenari di ordinario degrado urbano e di luoghi simbolo di una Milano post umana di ‘All’Ultimo Respiro’. Vanno via in fretta e furia dopo 24 canzoni, lasciando al dj set della serata il compito di accompagnare il deflusso degli spettatori e di intrattenere chi desidera continuare a sudare.

Esco con la sensazione che della rabbia degli inizi, della crudezza dei racconti della periferia di Milano sia rimasta solo la confezione, l’incarto che riveste qualcosa che ha preso la via del pop. E che da un certo punto di vista funziona anche. Ma oggi i Club Dogo si trovano in una terra di mezzo. Sul palco si muovono come i maestri che sono stati e forse sono ancora. Padroni della scena e delle barre. Stanno nel flow alla grande, trascinano. Riescono a trascinare alcuni tra i giovanissimi, ma forse non basta.

Troppo poco pop, per un mainstream che tra i ventenni ha preso una ben precisa direzione, troppo avanti con gli anni per essere credibili con i fan della trap, e anche per risultare ancora abbastanza scorretti per chi diciotto anni fa si preoccupava di “buttare via tutto” e oggi si preoccupa del livello di colesterolo dopo una cena con la famiglia in una masseria del Salento.
I ripetuti inviti a tirar su le mani o a spaccare tutto, suonano un po’ anacronistici nella misura in cui sono ripetuti a ogni pezzo.

E se stasera, a Roma, sottolineo, a Roma, hanno fatto gli stessi spettatori di una band post-punk di Bristol qualcosa vorrà dire. Per me ma anche per loro, che salutano e non rientrano per il bis, spiazzando più di qualcuno. Gli stessi CCCP, sembrano essere invecchiati meglio, o più probabilmente, il loro ufficio stampa ha saputo lavorare meglio e creare più hype.

E allora quella che almeno a me, vista da fuori, è rimasta addosso, è una delle più classiche operazioni nostalgia. Ci sta, gran parte delle band che hanno fatto la storia vive di questo. E nel loro caso è fatta da chi può permettersi di dire «ok, bambini, ora vi facciamo vedere cosa eravamo capaci di fare e cosa siamo capaci di fare ancora». Ma è un fatto che la maggior parte di questi “bambini” sceglie di acquistare biglietti per altri concerti che si guadagnano a Rock in Roma l’area del palco grande. Poi scorri sul tuo Instagram le storie dei tuoi amici trentenni con i video della serata di stasera e leggi i commenti che raccontano di viaggio all’indietro nel tempo.

Forse anche i Millennials stanno diventando boomer e anche un certo hip hop, dopo il rock, sta diventando musica da vecchi. Non è una sentenza, non è un male, è solo normale.

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