Public Image Limited: no, non sono canzoni d’amore
Era il 14 gennaio 1978 quando Johnny Rotten, icona punk e alter ego di tal John Joseph Lydon, dal palco della Winterland Arena di San Francisco saluta il pubblico di quella che sarebbe passata alla storia come l’ultima esibizione live dei Sex Pistols, e abbandona il gruppo, decretando sostanzialmente la fine della ‘grande truffa del rock’n’roll’.
Nei 36 mesi precedenti, con la complicità della strana coppia formata da Vivienne Westwood e Malcom McLaren, lui e gli altri tre scappati di casa avevano contribuito a riscrivere le regole del rock.
Quanto consapevolmente, è ancora oggi oggetto di dibattito.
Smessi i panni dell’icona punk, Lydon in brevissimo tempo mette insieme i Public Image Limited, più comunemente conosciuti come PiL – da punk a post-punk il passo è brevissimo, ci butta dentro anche un po’ di new wave, della sana sperimentazione ed ecco servita la ricetta magica che sta dietro a dischi fondamentali come “First Issue” e “Metal Box” o, più in là nel tempo, come quel gioiellino che è stato “Album” (o “CD” o “Cassette”, a seconda del formato d’acquisto), un album ricco di ospiti deluxe (Steve Vai, Sakamoto, Ginger Baker), trascinato nelle classifiche dal singolone ‘Rise‘.
Seguiranno altri tre album prima che sui PiL cali l’oblio, un oblio durato fino al 2012, l’anno della rifondazione (non chiamiamola reunion, perché a parte Lydon, nessun PiL originale è presente) e del ritorno discografico con “This Is PiL”, a cui seguiranno nel 2015 “What The World Needs Now” e nell’agosto di quest’anno il nuovissimo “End Of the World”, tre album carini e nulla più, in cui fatichiamo a trovare la verve, la profondità e la pregnanza che sgorgava copiosa dai solchi dei dischi di un passato che sembra oramai remoto.
Anche l’ultimissimo nato, per esempio, si lascia tranquillamente ascoltare e riusciamo a trovarci anche qualche spunto musicale degno di nota, come in ‘Car Chase’ piuttosto che in ‘Being Stupid Again’ o nel singolo ‘Penge’, anche se scorrendo i testi non possiamo che constatare come l’anima punk di quest’uomo si sia progressivamente dissolta con l’età, con le comparsate televisive e la triste vicenda della moglie Nora Forster, affetta da Alzheimer ed alla quale è stato accanto fino all’ultimo respiro, nell’aprile di quest’anno.
Lydon e i suoi PiL approdano in Italia per un unico appuntamento live, ai Magazzini Generali di Milano, per un concerto puntualmente andato sold-out nel giro di brevissimo tempo.
Ed infatti entriamo in un locale già gremito ed ai limiti della propria capienza.
Nel parterre affollato da un pubblico abbastanza trasversale il colore che predomina è il nero dei vestiti, abbinato al grigio dei capelli, inclusi quelli del sottoscritto: d’altronde, anche il buon Lydon ha tagliato il traguardo dei 67 anni e se gli anni son passati per lui, figuriamoci per tutti noi.
In attesa che i PiL prendano posizione sul palco, non troviamo alcun gruppo di supporto ma solo la console di DJ Ringo di Virgin Radio, chiamato ad intrattenere il pubblico con DJ set punkeggiante – piacevole, ma dalla scarsa utilità pratica.
In poche parole, si è persa una buona occasione per dare un minimo di spazio a qualche artista emergente.
Sono da poco trascorse le 21:00 quando i PiL si palesano sul palco, con una formazione che è rimasta tale fin dalla rifondazione del 2012.
A fianco a Lydon, unico membro originale, troviamo la chitarra di Lu Edmunds, il basso di Scott Firth e la batteria di Bruce Smith.
Il palco è minimalista, dietro al drum-kit troviamo il classico logo della band mentre centralmente, quasi fosse un pulpito da cui impartire i suoi sermoni, la postazione con leggio che il buon Lydon non abbandonerà mai per tutta la durata del concerto.
Vista la stazza raggiunta dal personaggio, non siamo certo sorpresi da cotanta staticità.
Una staticità che però non impedisce al nostro di prodursi in tutte le movenze che abbiamo imparato a conoscere ed amare per più di 50 anni, con quello sguardo allucinato con cui scruta il parterre e quelle smorfie a metà strada tra il crudele ed il sornione che ci riportano alla memoria le immagini del passato.
È invecchiato, Lydon.
Qualcuno dirà che è invecchiato male, e probabilmente ha pure ragione.
Non canta più come una volta, certi toni non li raggiunge più, ma il suo andamento cantilenante, istrionico e sopra le righe è ancora intatto.
Sul palco, dimostra di non avere perso un briciolo di quell’allure messianico che lo circonda, e che pare ben lungi da lui il voler tenerlo nascosto.
Lo show si apre con ‘Penge’, il singolo tratto dal nuovo album, a cui segue il primo brivido della serata con ‘Albatross’, il primo dei quattro brani estratti dal mitico ‘Metal Box’, e che ovviamente scatena la reazione entusiasta di un pubblico adorante.
Da quel disco verranno poi eseguite durante lo show altri pezzi da 90 come ‘Memories’, ‘Death Disco’ e ‘Poptones’.
Grazie al cielo il fonico ha fatto un buon lavoro, ed i suoni – per lo meno dalla mia postazione sulla sinistra del palco – restituiscono fedelmente il sound dei PiL.
Dopo la già citata ‘Being Stupid Again’ ci viene proposta una versione rivista e corrotta di ‘This Is Not A Love Song’ (su questa il buon Lydon non ci può proprio arrivare, quindi ben venga la rilettura).
Tra un pezzo e l’altro Lydon predica ai convertiti, sugli spalti del piano di sopra compaiono gli striscioni inneggianti ed inevitabilmente fanno la comparsa i telefonici pronti a catturare porzioni di show, fornendo a Lydon una buona scusa per mandare (letteralmente) a fare in culo gli incauti sprovveduti che si son fatti beccare: «What are you doing? Are you shooting a video? Fuck Off! This is a real show… for real people! We are real! So fuck off, right now».
Come sempre, la tocca piano.
Tra gli highlights della serata non possiamo non citare la splendida ‘The Body’ e la title track di “Flowers Of Romance”, fino ad arrivare a ‘Shoom’, la filastrocca al vetriolo («sex is bollocks, humans is bollocks, you fucking bollocks») che si conclude amabilmente con un beneaugurante «what the world needs now is another fuck off».
Si chiude così il main set.
Lydon chiede quattro minuti di pazienza prima di tornare on stage per gli encore, che si avviano alla stragrande con una imprescindibile quanto inevitabile ‘Public Image’, a cui segue una cover di ‘Open Up’ dei Leftfield, lasciando poi a ‘Rise’ l’onore e l’onere di chiudere il concerto, con tutto il pubblico che accompagna l’uscita di scena della band cantando «may the road rise with you».
Sipario, applausi, e tutti a casa sotto la pioggia, consapevoli di aver potuto assistere al ritorno sul palco di una vera icona del rock.
Invecchiata, acciaccata e forse non più rilevante come 30 anni fa, ma comunque ancora attiva e produttiva.
Il che, a 67 anni suonati, non è per nulla scontato.