Pontiak, impercettibili progressioni psichedeliche
Milano, 12 marzo 2019
Il Circolo Ohibò è teatro di una delle date italiane del tour dei Pontiak, prolifica band americana originaria della Virginia.
Diverse fasi della loro carriera sono caratterizzate dalla combinazione di numerosi stili, una base hard rock miscelata a sonorità che sanno essere più stoner o psichedeliche, o che attingono a influenze meno ostiche che rimandano a una scena indie americana più classica.
La proposta di SoLow apre la serata, con Tyler Trotter e il suo progetto solista a base di molti effetti e una semplice chitarra.
Quieto, molto ambient nel mood, si muove con estrema parsimonia, mettendo in evidenza il concetto prima ancora dell’effetto.
Al di là delle difficoltà intrinseche della tipologia musicale, SoLow crea atmosfere interessanti, in particolari quando l’incedere si fa un po’ più spinto.
Toni smorzati anche per i Pontiak, che attaccano con un pieno hard rock anni Settanta e ‘Surrounded by diamonds‘, che sia nelle chitarre o nelle voci corali, dal passo lento e dai suoni bassi e soffusi.
Su questa falsariga si prosegue, con un po’ più di rapidità e con giri che creano effetto ipnotico.
Si riconosce il taglio dei pezzi più recenti del loro percorso, un nuovo che in un certo senso appare più vecchio o per meglio dire “retrò”.
La costruzione del suono dei Pontiak risulta semplice, si riesce a riconoscere quasi ogni singola nota.
Sempre belli alti nel prendere la parte vocale, se decidono di aumentare il pathos lo fanno alzando il suono anziché accelerando il ritmo.
Quando arriva il timbro spinto di ‘We’ve got it wrong‘, ci rende conto di essere arrivati gradualmente a un suono assolutamente pieno, senza che questa progressione si sia fatta notare prima.
Arrivano ora riff di chitarra che sono diventati grevi e graffianti, sfoderando all’occorrenza un passo possente e ruvido.
I Pontiak razionando le digressioni psichedeliche per non perdere di impatto, stemperano e rallentano con passaggi di matrice orientata al post-rock, mantenendo comunque un effetto vivo grazie all’equilibrio della doppia voce.
Giocano nuovamente col basso, che smorza il tempo e rinvigorisce la potenza del suono.
L’impostazione ricorda le regole della chimica, i passaggi strumentali dei Pontiak vengono lasciati decantare e poi precipitare, per successivamente innescare repentine reazioni esogene.
Di nuovo ci rendiamo conto che siamo intanto arrivati, senza aver avuto la prontezza di accorgercene prima, su di un mood stoner e stoned, quasi analgesico, a definizione più bassa e a carica più potente.
È la percezione del tempo a essere ora maltrattata, modulando su questa deformazione temporale il timbro vocale e quello strumentale.
Non c’è stacco e non c’è urto, i Pontiak non fanno altro che accompagnare in giro l’insieme.
Dopo la classica uscita, il rientro per l’encore è in punta di chitarra, la voce di ‘Wildfires‘ è sentimentalmente ruvida per un southern rock sporcato e vibrato.
Ripartenza finale a cannone, col tempo schizofrenico e interrotto di ‘Expanding sky‘ e con la violenza degli strati di suono a sovrapporsi.
Il concerto dei Pontiak è un complesso di abilità, empatia, evasione, aggressione, emozioni che sanno mettere in fila senza soluzione di continuità.