Nubiyan Twist – la rivoluzione del jazz d’oltremanica
Il collettivo inglese incendia il Monk
Un pubblico di giovanissimi rende omaggio e celebra la band capitanata da Tom Excell
Roma, 17 Ottobre 2024
Sere fa, ho fatto ascoltare qualche sera fa i Nubiyan Twist a una persona che per me è un riferimento musicale importante. Eravamo sulla piattaforma di messaggistica dal logo verde e la sua risposta non si è fatta attendere. “Faccio fatica a definirli jazz, mi sembrano ibridati con afro, beat, soul. A parte questo spaccano tutti e tutto e mi piace un sacco questo suono”.
Questo suono è quello che una decina d’anni ha fatto irruzione nel mondo del jazz.
Peckam, periferia sudest di Londra, quartiere noto anche come “piccola Lagos” e non serve aggiungere altro. Da qui, negli ultimi due decenni è partita l’onda che sta rivoluzionando il mondo del jazz e della quale i Nubiyan Twist sono uno dei più recenti esponenti. Un’analisi di questa scena meriterebbe un approfondimento che vada ben oltre queste righe, andando a toccare profonde dinamiche politiche, sociali e culturali. Proviamo a introdurla in poche righe.
Tutto nasce da un progetto culturale articolato, promosso da diverse istituzioni, di valorizzazione delle esperienze di contaminazione originatesi dall’incontro di differenti culture. A Londra, tra il censimento del 2001 e quello del 2011, gli individui di etnia caucasica sono diminuiti del 4,23%; quelli di etnia asiatica e afro/caraibica sono aumentati rispettivamente del 59,63% e del 39,06%. Le etnie miste hanno visto un aumento addirittura del 79,24%. Oggi, tra immigrati di prima, seconda e terza generazione, molto più della metà degli abitanti ha radici che affondano al di fuori del Regno Unito.
Primo motore di questo progetto è stato Gary Crosby, contrabbassista jazz londinese di origini giamaicane, che fondò, nel 1991, Tomorrow’s Warriors. Una scuola il cui principale obiettivo è l’incontro e valorizzare le differenze interindividuali attraverso il jazz, e permettere l’accesso gratuito a un’istruzione musicale di alta qualità a giovani di diversa estrazione socioculturale. Esaltare le diversità e ridurre le distanze sociali attraverso il jazz, con un’attenzione particolare ai giovani di origine africana o che hanno difficoltà ad intraprendere carriere in ambito musicale.
Primo risultato è stato quello di riportare il jazz in strada, restituendone la spontaneità primordiale, fuori dall’accademismo, dallo snobismo intellettuale e dal conservatorismo dei salotti. Scioglierlo dai legacci dei jazz club, dove distratti e panciuti signori, immobili dietro un tavolino, sorseggiando whisky accanto alle loro aristocratiche compagne e davanti a una cena dal costo sproporzionato. Liberarlo dagli steccati che esso stesso si è costruito intorno, restituendogli l’anima nera e dionisiaca. Il secondo, non meno importante, è stato quello di ringiovanirne i suoni.
Parecchi alfieri della nuova scena jazz londinese sono ex allievi della scuola. Moltissimi di origine africana e caraibica, spesso cresciuti ascoltando rap, hip hop, elettronica. Apripista e ispiratore è stato Kendrick Lamar, non l’unico a mescolare jazz e hip hop, ma forse il primo a raggiungere i giovanissimi. Altri ancora frequentavano i club dove si ascoltava e si ballava house, trance, techno; e non hanno esitato ad inserire simili sonorità nei loro brani, in un riuscito esperimento di contaminazione, precursore di un ricambio generazionale nel pubblico. Ne ho conferma stasera, guardandomi intorno e osservando le ragazze e i ragazzi che attendono l’apparizione sul palco dei Nubiyan Twist.
La band è un collettivo di nove elementi che ruotano intorno alla figura di Tom Excell, fondatore e mente del progetto. L’Italia in questi giorni la stanno percorrendo in sette. Tom Excell, chitarra, percussioni e finiture elettroniche; Aziza Jaye, voce; Nick Richards, sax alto, sax tenore e voce; Denis Scully, sax soprano e tenore; Madeleine, keyboards; Luke Wynter, basso; Ben Brown, batteria.
Si formano a Leeds, capiscono che è a Londra che succedono cose e ci si trasferiscono. Quattro dischi all’attivo, l’ultimo uscito pochi mesi fa. Intensa attività live, parecchi festival: Glastonbury, Edinburgh jazz Festival, WOMAD, Meltdown di David Byrne, Montreux jazz Festival, Supersonic e mi fermo qui.
Presentano dodici i brani in scaletta, otto dei quali estratti da “Find Your Flame”, loro più recente uscita. Con ‘Lights Out’ incendiano le 450 persone presenti al Monk. Ritmo e tiro disco/funky anni ’70. Il groove è lo scheletro portante del pezzo, non a caso impreziosito nel disco dal featuring di “Sua Maestà” Nile Rodgers. La chiave è il feeling, l’abbattimento della barriera tra palco e platea. Non è una dimostrazione di capacità tecniche, né l’autocompiacimento di chi esaurisce la spinta creativa nell’autoerotismo tra sé e lo strumento.
La porta che si apre permette l’irruzione delle emozioni del pubblico il destinatario delle attenzioni e delle energie della band. “Welcome everybody” è il saluto di Aziza Jaye che si divide con Nick Richards il compito di fare da ponte tra band e fans. Ma il più emozionato è Tom Excell, che si rivolge al pubblico con il cuore in mano. Sottolinea come sia la prima volta che suona a Roma, ma si dimentica di averlo già fatto lo scorso anno come chitarrista degli Onipa, band anglo-ghanese nel cartellone dell’edizione italiana del Womad.
È una festa, in cui momenti più felpati e suadenti fanno da preludio a esplosioni di energia afro. Aziza ci invita a concentrare tutta la nostra attenzione sul movimento delle pelvi. Hip hop, jazz e colori caraibici, si fondono in un unicum, nobilitato dagli inserti del sax soprano di Denis Scully e dalla chitarra di Excell, passata in un chorus che le conferisce identità e personalità.
Anche la pronuncia delle parole dei testi è connotata da suoni e inflessioni che portano lontano dal Regno Unito, mentre impazza il tripudio poliritmico della batteria e del basso, inseguiti ora dalla chitarra, ora dalle percussioni.
È una musica che sta entrando di prepotenza nell’universo giovanile. I ritmi afro/caraibici hanno vinto le resistenze delle ragazze e dei ragazzi, fino a pochi anni fa diffidenti e chiusi verso determinati mondi sonori. La ballabilità ha aperto le porte dei club e, a distanza di quasi un secolo, il jazz torna a far scuotere e agitare, riacquista vitalità e ritorna strumento di liberazione del corpo. E mi auguro di vedere sempre meno situazioni quale quella verificatasi due anni e mezzo fa alla casa del Jazz di Roma, con i Sons of Kemet di Shabaka Hutchings a far fuoco e fiamme sul palco davanti a una platea di spettatori incollati alle loro sedie
‘Battle Isn’t Over’ è una classica jazz song che ci consente di fermarci per respirare, ma dura poco. ‘Carry Me’ è un omaggio a Seun Kuti, ospite anch’esso in “Find Your Flame e riverbera echi di afrofuturismo, rivendicazione politica e chiamata alla lotta per la consapevolezza e la liberazione dei popoli africani. Aziza ci arringa invitandoci a gridare con lei “My blessing, my lesson, my people”. Poi ci saluta, pugno chiuso, tra fuochi d’artificio di luci rosse e bianche.
‘Pray For Me’ part 1 è una preghiera in cui vanno a braccetto rap e caraibi. Il basso elettrico passa in in un chorus e acquista profondità, la chitarra entra nel pezzo doppiata dal sax; poi una corsa senza fine nella sterminata pianura nigeriana. Ci ritroviamo, infine, tutti a terra sul pavimento della sala, pronti a saltare in aria, cantando in un botta e risposta con Aziza.
Il concertoSiamo nuovamente chiamati a cantare durante ‘Permission’, pezzo costruito su poliritmie e in cui fa capolino l’elettronica. “È facile vi insegno”, dice Aziza, dimostrando che ottimi maestri creano ottimi allievi. Si canta con il corpo, si impara con il corpo, si suona con il corpo. E si finisce con le vibes e il groove reggae di ‘Tittle Tattle’.
Forse sì, si farebbe fatica a definirlo semplicemente jazz. Ma mentre esco non posso fare a meno di chiedermi cosa sia davvero il jazz, cosa sia stato, cosa sia diventato e dove preme per andare. Chi parla genericamente di libera improvvisazione intorno a un tema, chi di un approccio che vada al di là di regole, sottogeneri. Credo che il jazz non possa essere definito una volta per tutte, il rischio è di passare notti intere a disquisirne senza giungere a un punto di arrivo.
Ma poi penso sempre a un film francese, “La Storia del Jazz”, citato da Alessandro Baricco in “Barnum”, in cui un vecchio nero, seduto di spalle sulla veranda di una catapecchia con una chitarra in mano, dà la più azzeccata definizione del jazz che abbia mai sentito: “Il jazz è come quando la tua donna ti lascia. You know?”
Lo stesso scrittore torinese ricorda che, agli albori della sua comparsa, la parola “jazz”, non fosse da pronunciarsi in presenza di signore. Ecco, forse la vera rivoluzione, starà nel farla ritornare una parola “proibita”. Intanto attendiamo colmi di speranza, e balliamo.