Muse, sospesi tra pomposità barocche e atmosfere apocalittiche
Governato dalla pulsione di vita, Eros, l’amore è la diminuzione di entropia all’interno di una regione limitata di un sistema.
Come tale, è contrario alle leggi della fisica, che prevedono un aumento di entropia, conseguenza delle trasformazioni spontanee nel sistema stesso. Destinato a soccombere sotto la spinta di Thanatos, forza disgregante, confliggente, distruttrice, nasce da una deviazione dal corso naturale degli eventi e si può rappresentare attraverso equazioni che descrivono l’andamento naturale di un sistema termodinamico verso il caos e il disordine.
La vita, l’amore, l’attrazione esistono nella misura in cui riescono a mantenersi a spese dell’ambiente in cui si trovano.
Quando accadono è sempre per un beffardo corto circuito, un’anomalia di sistema, una mutazione nel Dna cosmico.
A tutto vantaggio di poeti, romanzieri, cantautori.
L’amore tra me e i Muse non è mai nato, benché il terreno sul quale potesse germogliare fosse stato preparato a dovere.
Quanti di voi sanno che il primo concerto romano dei Muse è stato a Garbatella?
Un evento improvviso mi impedì di partecipare al loro live del 27 aprile 2001 al Palladium.
Un segno del destino, il naturale corso degli eventi o semplicemente il secondo principio della termodinamica.
Quattordici anni dopo, la band capitanata da Matthew Bellamy incrociò di nuovo i suoi destini con le mie ondivaghe vicissitudini.
2015, Berlino, prima edizione europea del Lollapalooza, ex aeroporto di Tempelhof.
La band britannica, fresca di uscita di “Drones”, headliner sul palco principale, e io che ripiegai sui Tame Impala, bloccato da attacchi di panico che per buoni tre lustri mi tennero lontano dalle mega adunate musicali.
Motivo per cui avevo già saltato il concerto di Roma del 2013, passato alla storia della band.
Avevo comunque avuto modo di farmi un’idea della band inglese.
Talentuosa, tecnicamente superba, musicalmente preparatissima e un po’ “paracula”.
Una buona scrittura, capace di tirar fuori melodie e suoni accattivanti, forse troppo.
Ai miei occhi erano “colpevoli” – si badi bene, tra virgolette – di aver preso e shakerato tutto quello che avesse fino ad allora funzionato nel rock, nel pop, nella new wave elettronica, nel metal.
Aggiungendo orchestrazioni sinfoniche con progressioni armoniche di sicuro appeal, una timbrica vocale che strizza l’occhio a Thom Yorke, e una libera interpretazione del teorema di Noel Gallagher: «scopiazzi canzoni da un po’ di gente, le cambi un po’, metti tuo fratello nella band, gli tiri i pugni in ogni momento, e la cosa vende».
Niente fratelli nei Muse per Bellamy, ma testi apocalittici, che affondano le mani nelle teorie cospirazioniste, nella disumanizzazione dell’esistenza, nelle lotte contro le oppressioni politiche, nel sovrannaturale, farciti sapientemente con richiami e rimandi a riferimenti letterari colti.
Il gioco era fatto, il successo anche.
Che poi sapessero scrivere belle canzoni – alcune splendide, altre un po’ meno (ma ci sta) – e suonarle ancor meglio, era fuori discussione.
Quindi tanto di cappello, il problema era forse mio.
Ho aspettato più di vent’anni e la giornata più calda e infernale degli ultimi cinquant’anni per andare da loro.
In un Olimpico che posticipa di un’ora apertura dei cancelli e inizio dello show, e la band che fa il verso al Tg2 e si raccomanda di non uscire nelle ore più calde, bere molta acqua e indossare creme e cappellini protettivi.
L’appello è parzialmente ascoltato, con i primi fans temerari che piombano ai cancelli ben prima delle 17.
L’attesa è ingannata dalle due band in apertura: i giapponesi One Ok Rock e gli inglesi Royal Blood.
Finalmente alle 21.55 l’arsura dei fan viene placata: cori e attacco di batteria, poi chitarroni. ‘The Will Of the People‘, title track dell’ultimo lavoro, datato agosto 2022.
Riavvolgo il nastro fino al 1996.
Artista Marilyn Manson, album “Antichrist Superstar”, traccia 2.
Ascoltate e decidete voi.
La partenza è comunque alla massima potenza, muro di bassi, cassa di Dominic Howard che si porta dietro le ottantamila mani presenti all’Olimpico. Bellamy, in versione Pifferaio di Hamelin, sulla la passerella, arriva al centro del prato e si gode il suo primo bagno di folla.
Folla che pende dalle sue labbra e dalle sue dita sulla chitarra.
La scenografia è mastodontica.
In fondo al palco prende fuoco li gigantesco monogramma “WOTP”, iniziali del titolo dell’ultimo disco.
I musicisti indossano cappucci e maschere a specchio.
Intorno, laser e gigantesche lame mobili di luci a circondare il palco in alto e di lato.
Il primo sussulto nostalgico si ha con ‘Hysteria‘, il pubblico impazzisce.
Insolitamente in tribuna d’onore, faccio fatica a restare seduto e composto.
Ma ne riparleremo.
Il concerto ripercorre ventiquattro anni di carriera della band, con brani estratti da tutti i loro dischi, eccezion fatta per il primissimo “Showbiz”.
Parte del leone il già menzionato ultimo lavoro e “Absolution”.
‘Psycho‘, unico estratto da “Drones”, è servita con il contorno di immagini demoniache, mentre tremano le fondamenta dello stadio Olimpico a colpi di batteria.
La prima mezz’ora che vola via senza un minimo di sosta tra fiamme, fuoco e diavoli.
Primo momento di respiro arriva con ‘Compliance’, prima di un’esplosione di gigantesche stelle filanti celesti e manifestini sparati sul pubblico.
È un concerto tecnicamente mostruoso, eseguito alla perfezione e studiato affinché nulla sia lasciato al caso.
Matt Bellamy è un virtuoso e le sue capacità chitarristiche vanno oltre le mie aspettative.
Della batteria di Howard ho già detto, il basso di Christ Wolstenholme è ogni volta un dolce pugno all’altezza del diaframma.
Rendo onore anche a Dan Lancaster, polistrumentista che li accompagna in tour da alcuni anni.
Il loro sound è una miscellanea di elementi di diversa provenienza.
Fraseggi e orchestrazioni sinfoniche e classiche, elementi hard rock e metal, elettronica.
E tra fuoco, fiamme, laser, pupazzi e giganteschi mostri che prendono forma, Bellamy cita “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo” e c’è spazio anche per il romanticismo.
‘Verona‘ è dedicata a una fan messicana recentemente scomparsa.
In essa si coglie il loro amore per Ennio Morricone, cui renderanno omaggio come consueto prima dell’ultimo bis e potrebbe essere benissimo messa dentro “Rattle and Hum”, magari riveduto e corretto, senza sfigurare.
A proposito di incontri ravvicinati, c’è spazio per quello di Howard e Wolstenholme, che eseguono ‘The 2nd Law: Isolated System‘ e ‘Undisclosed Desires‘ sulla passerella a centro stadio.
Trovo un posto della tribuna d’onore in cui godermi il concerto in piedi, senza infastidire chi preferisce la comodità delle poltroncine.
Ma l’idea di alzarsi in piedi è venuta anche a una discreta parte della tribuna, buon segno.
La ‘Toccata di Fuga in Re minore‘ di Johann Sebastian Bach riporta solennità nel concerto, la maschera di “V For Vendetta” riporta l’oscurità. ‘Madness‘ è un nuovo tuffo nelle sequenze elettroniche – e in altre citazioni più o meno ortodosse di altre band più o meno riconoscibili – interrotte da un attacco al fulmicotone di distorsione valvolare.
Interludio con accenno al riff di ‘Heart-Shaped Box‘ made in Cobain, prima dei suoni Nu Metal di ‘We Are Fucking Fucked‘.
Lo strumentale di ‘The Dark Side‘ ci trasporta in sonorità prima floydiane (un caso il titolo?), con Bellamy che appare alla slide guitar sopra un altro enorme pupazzo, poi verso atmosfere più oscure e sulfuree.
I suoni diventano un gigantesco buco nero e preparano l’entrata di ‘Supermassive Black Hole‘ e poi il lampo di ‘Plug In Baby‘ che fa esplodere lo stadio Olimpico.
Chiusura della prima parte con ‘Uprising‘ e ‘Starlight‘ e Bellamy dotato di giubbotto luminoso che nuovamente sulla passerella tra il pubblico che ricorda forse un po’ troppo il Bono dello “Zoo Tv Tour”.
Il protagonista del bis è un gigantesco caprone demoniaco che prende forma sul palco già durante lo spoken word dalla colonna sonora del film “Simulation Theory”, in cui si preconizza l’avvento di un mondo in cui le persone saranno controllate dall’intelligenza artificiale attraverso i dispositivi mobili.
Avvento dell’anticristo, teorie della cospirazione, poteri occulti, lotta dell’umanità.
«Kill or be Killed», urla Bellamy, mentre la band suona alla massima potenza a colpi di cassa e distorsioni in uno scenario alla “Blade Runner”, con lingue di fuoco che balenano sulla folla.
Per finire, l’omaggio esplicito a Morricone.
L’armonica a bocca suonata da Bellamy, introduce l’ultimo episodio della saga: ‘Knights of Cydonia‘.
Cattedrali gotiche di suono, che si stagliano su atmosfere sulfuree, ombrose e paesaggi medioevali.
Una cavalcata strumentale, la lotta eterna di Eros e Thanatos, principio di attrazione e principio di separazione, entropia contro sintropia, la lotta delle due forze per il predominio sull’universo, la lotta dell’umanità per la sopravvivenza e per i propri diritti.
Sullo sfondo, il diavolo, immobile, osserva.
Che dire? Sì, i Muse esagerano un po’ con le pomposità barocche e il calcare la mano su atmosfere apocalittiche.
Non saranno forse la band più creativa del mondo, ma la bravura è quella di riuscire a combinare elementi molto diversi tra loro e, cosa affatto scontata, scrivere belle canzoni.
Prendono idee e citazioni da quello che è stato prima di loro e sanno riarrangiarlo assai bene, tirando fuori un prodotto di qualità.
Ma soprattutto sono grandissimi musicisti e sanno come si mette su un concerto, anzi, un vero e proprio spettacolo.
Cattedrali gotiche di suono, melodie accattivanti, mostri alieni che prendono forma, demoni, laser, fuoco, interludi con immagini in 3d, videoart.
Canali sensoriali e sistemi rappresentazionali iperstimolati in contemporanea.
Un orologio svizzero, con meccanismi calcolati al secondo, in cui nulla è lasciato al caso, che per due ora ti cattura, ti ipnotizza, ti fa ballare, ti angoscia, ti esalta. In poche parole: amano vincere facile ma ti divertono da matti.
L’aver deciso di seguire il consiglio dei Muse di arrivare allo stadio in orario più “fresco” mi ha fatto perdere la prima band, One Ok Rock.
Due alternative: inventarmi due righe dopo aver ascoltato qualche loro pezzo sul web o ammettere la verità.
Opto per quest’ultima.
I secondi, invece, sono stati la sorpresa della serata.
I Royal Blood, duo di Brighton formato da Mike Kerr (basso e voce) e il batterista australiano Matt Swan, sono un vero e proprio muro di suono.
Kerr riesce a tirar fuori dal suo basso suoni che farebbero la felicità e la fortuna di qualsiasi chitarrista.
Hanno un groove e sound pazzesco, carisma, tiro, gusto. Si prendono il pubblico in pochi istanti e ricevono ovazioni per tutta la durata del loro set. Confermano quanto bene si diceva di loro e soprattutto si mostrano pienamente degni e meritevoli dell’endorsment di Sua Maestà Jimmy Page: «Sono fantastici, incredibilmente avvincenti, Suonano con lo spirito delle cose che li hanno preceduti, ma puoi sentire che porteranno il rock in un nuovo regno».
Segnateveli e teneteli da conto.
Cammino su viale dei Gladiatori all’uscita dello stadio, rimugino sulla serata, prende forma un pensiero: stanno tornando i suoni di chitarra.
In quel momento decido di chiudere il pezzo con i Royal Blood.