Mudhoney, non c’è spazio per i nostalgici
MUDHONEY, LA STORICA BAND DI SEATTLE INFIAMMA ROMA
Al Largo Venue la prima data italiana del tour europeo 2024
Roma, 11 Settembre 2024
La parola Mantra è composta dal suffisso “man” che in sanscrito significa mente, pensiero, flusso mentale e dal suffisso “tra” che vuol dire proteggere o liberare. La sua ripetizione proteggerebbe e libererebbe il pensiero dalle emozioni negative. Attraverso le vibrazioni delle onde sonore avrebbe effetto anche sulla fisica e sulla chimica delle cellule del corpo.
Non entro in temi e questioni ben più complessi e profondi di quanto io sia in grado di sostenere, ma una mie convinzioni, che assume sempre più spesso la forma di un mantra personale è che “non è come suoni, o cosa suoni, a colpire le persone. È chi sei”.
La conferma che possa essere così mi è recentemente venuta rileggendo un’intervista di Mark Arm, frontman dei Mudhoney, datata 2018, in cui afferma come sia molto più facile rimanere fedeli a sé stessi che cercare di prevedere o seguire le tendenze del mainstream. Vero? Falso? Non lo so e non mi interessa nemmeno saperlo. Ho, tuttavia, il sospetto che sia questo motivo per cui la band di Seattle mantiene la stessa credibilità, lo stesso impatto, la stessa energia, lo stesso furore creativo, lo stesso richiamo sul pubblico la stessa voglia e lo stesso divertimento che aveva trentasei anni fa, al tempo della loro comparsa sulla scena del rock alternativo internazionale.
I quattro musicisti, inventori alla fine degli anni Ottanta del suono che avrebbe invaso il mondo, e capostipiti di tre o quattro band di “discreto” successo negli anni a seguire, si presentano puntuali alle 21.30 davanti alla platea di un Largo Venue gremito ai limiti della capienza. Mark Arm, Steve Turner, Dan Peters e Guy Maddison; i primi tre insieme dal 1988. Restare sé stessi forse vuol dire anche questo. E fedeltà a sé stessi vuol dire anche fare 900 persone durante il periodo d’oro della scena di Seattle, e farne 900 a Roma nel 2024. Le persone continuano a seguirti. Anzi no, ad amarti.
Sono diretti, essenziali. Nessuna concessione ad atteggiamenti da divi o da predicatori. Sempre le stesse regole: naturalezza, credibilità, autoironia (quella di Mark sulla sua pancia da birra in primis) e amore per ciò che si fa. Non eccedono in parole, i Mudhoney, bastano quelle che campeggiano sulla maglietta di Steve Turner: “Vote and Destroy”, manifesto programmatico di una band che non ha mai temuto di prendere posizione e di schierarsi politicamente, senza nascondersi dietro dichiarazioni di opportunità. Non è mai rabbia nichilista la loro, ma direzionata, consapevole, propositiva e costruttiva.
Da un punto di vista strettamente musicale l’eroe della serata è Dan Peters, un mostro a otto braccia dietro una Ludwig arancione dal doppio timpano. Martella, devasta, si lancia in rullate micidiali, infinite e trascinanti. Non avendo un domani, mi lancerei nel pogo anche io. Il compito di raccontare la serata è l’unico appiglio che mi trattiene dal farlo. Il dubbio di aver fatto la scelta giusta mi rimarrà. Il drumming di Peters è una locomotiva, il basso di Guy Maddison sono i vagoni. La chitarra di Steve Turner sono le fiamme che li incendiano, mentre il canto di Mark Arm è uno schizzo di acido solforico che ti prende in faccia. Ed è l’ultima cosa della quale riesci a renderti conto, prima di essere investito da un treno infuocato lanciato a trecento all’ora.
La scaletta attinge dal repertorio di un’intera carriera; dagli esordi dei primi EP, fino all’ultimo. Ventitre i brani suonati, per un’ora e mezza abbondante di concerto. Il delirio che si scatena con ‘Touch Me I’m Sick’ testimonia di quanto sempreverde e attuale sia la loro musica. È il primo singolo uscito dei Mudhoney, ma a riconoscerlo dalle prime note e scatenarsi sotto il palco sono soprattutto i più giovani. Non è un concerto per reduci o nostalgici, non si va per ricordare i tempi che furono e rievocare le emozioni dei vent’anni. Si va per affermare il diritto di viversi il presente e guardare al futuro con l’acceleratore a tavoletta. Perché i primi a farlo sono soprattutto quei ragazzi sul palco.
Il maggior numero di canzoni (ma non troppe di più) sono estratte da “Plastic Eternity”, loro ultima fatica, uscita il 7 aprile 2023, dopo una lunga gestazione e “un parto cesareo” [cit. Mark Arm]. La tensione di ‘Almost Everything’, cavalcata verso l’estinzione dell’universo o verso una nuova nascita, chissà; la tenerezza di ‘Little Dogs’, dedicata proprio ai nostri più cari amici; la cupezza di ‘Tom Herman’s Hermits; la danza ancheggiante di Mark che accompagna ‘Human Stock Capital’ e la sua voce passata nel delay di ‘Souvenir Of My Trip’.
Manca il pezzo che personalmente attendevo più di tutti gli altri. Nel titolo il perché: ‘Flush the Fascist’. Piccolo spoiler: il motivo non è legato a questioni politiche o scelte artistiche, e su queste pagine vi sarà presto rivelato.
Quando rientrano per l’ultimo bis, ti aspetti che il grosso e il meglio siano ormai alle spalle; e invece manco per niente. Sono le 22.50 quando i Mudhoney rientrano sul palco e Guy Maddison sorseggia una nota birra sarda appoggiata sul suo ampli. Attaccano ‘One Bad Actor’, estratta da “Morning in America”, EP del 2009. Mi aspetto quattro minuti scarsi di canzone, saranno più di dieci di bolgia. Una canzone che non vuol mai finire, perché sono i quattro a non voler abbandonare il palco.
A prendersi la scena è nuovamente Dan Peters, una tempesta di rullate senza fine, che si lancia in un solo di batteria come non ne vedevo live da almeno dieci o quindici anni. E poi una coda senza fine, la chitarra inferocita di Steve, un muro di suono, un batterista che non si ferma mai, un frontman che se la gode e un bassista che beve birra del posto. Il rock and roll non ha segreti, è essenziale e semplice. Basta aggiungervi la dimensione del sogno. E oggi un sognatore lo riconosci da quanto sono distorte le chitarre nella musica che ascolta.
Ma torniamo indietro di un paio d’ore per una meritata appendice. I Søwt sono la band che accompagna i Mudhoney nel loro tour europeo. Vengono dall’Olanda e, per loro ammissione, «rappresentano i giovani frustrati della scena musicale di Eindhoven». Esplosioni noise inviluppate su loro stesse. Scenari sonori apocalittici, disperati e liberatori, momenti intimi e malinconici preludio di accelerazioni fulminanti che mi incollano alla parete della sala. Non ti lasciano respirare, riempiono di suono e di tensione creativa ogni minimo spazio tra le persone. Mi scopro a lanciare urla indemoniate, tra frustrati ci si riconosce. Spesso ci si attrae. Chiudono il loro set con una batteria posseduta da entità irrequiete che lancia un treno surf, a far da base a delle chitarre a metà strada tra accenni psichedelici (il bridge di ‘Julia Dream’ dei Pink Floyd) e il noise punk sbattuto in faccia.
Meriterebbero di essere menzionati tutti e quattro. Ma cito solo Danielle Warners, cantante e bassista che potrei eleggere a mia donna ideale anche solo per il colore dei capelli. Se pensate sia un favoritismo siete sulla strada giusta. Se volete saperne di più, andate sui loro profili social. Mi ci faccio un giro e scopro anche che indossiamo le stesse magliette.
Ritornando ai mantra, una voce interna inizia a recitarne un secondo: «quando in Italia l’industria musicale avrà il coraggio di promuovere e dar vetrina a band così, allora fatemelo sapere». O forse mi basterebbe che le parole indossate da Steve Turner saranno qualcosa di più di una stampa sulla maglietta. E se è stato possibile essere arrivato fin qui senza nominare una certa band di cui in diversi stasera indossano la maglietta, credo che gli auspici espressi nel precedente paragrafo possano avverarsi. In fondo sono un sognatore.