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Motta, il volto del cantautorato rock italiano

Le tortuose, bizzarre, imprevedibili – talvolta beffarde – circonvoluzioni della vita mi portarono, quasi una decina di anni, fa a vivere da spettatore (defilato ma coinvolto) i primi timidi voli dell’indie romano, che nel giro di pochi anni sarebbe planato acrobaticamente nei cieli del mainstream.
Incrociai per la prima volta Francesco Motta proprio in quel periodo.
Girovagava dalle parti del mixer del neonato Monk Club durante una serata della quale non ricordo null’altro.
Venivo da una vita in cui non c’era molto spazio per l’indie rock e per i Criminal Jokers, la sua precedente band, e non sapevo chi fosse.
Mancava ancora del tempo al suo debutto solista e associai la sua figura a quella di Syd Barrett sulla copertina di “The Madcap Laughs”: fu per questo motivo che mi colpì.
Ebbi poi modo di saperne di più su di lui e nell’aprile del 2016 andai vicino a calcare il palco del Quirinetta per l’opening alla presentazione de “La Fine Dei Vent’anni”, suo primo disco solista prodotto da Riccardo Sinigallia.
Si veda alla voce: imprevedibili e bizzarri percorsi della vita.
Ero comunque presente nell’ex cinema a due passi da Fontana di Trevi, adibito a sala concerti, ormai abbandonato a sé stesso e alle muffe su intonaco e calcinacci.

Del tempo che passa la felicità‘, cantava allora, mentre del tempo che è passato tengo conto stasera.
Quattro album in studio – anzi cinque, compresa la colonna sonora de “La Terra dei Figli” – uno dal vivo; due Targhe Tenco, l’incontro con la musica africana (i concerti con Les Filles de Illighadad ), una partecipazione al Festival di Sanremo, altre collaborazioni prestigiose e un matrimonio per lui.
Due covid, un trasloco, svariate crisi esistenziali, qualche viaggetto, alcune belle amicizie, un colpo della strega, una Conference League e lo stesso peso forma per me.
Poteva andare peggio, per cui accontentiamoci e viviamo sereni.
Ok, diamoci un taglio; ho già scritto millequattrocentosettantaquattro caratteri (spazi esclusi), ma sono contento di essere all’Orion.
Da una parte è un amarcord di un passato vissuto a fondo e divertente, dall’altra sono curioso di ascoltare live “La Musica È Finita”, l’ultimo suo lavoro, il più bello dei quattro finora pubblicati, almeno per me.

Persone informate dei fatti mi parlano di quasi 900 biglietti venduti. Il locale fatica a riempirsi, ma è solo colpa del traffico del venerdì sera sul Raccordo Anulare.
Alla fine, arrivano tutti: i fotografi nel sottopalco; i suoi genitori nel privé; un’anticipazione di un ospite nel mio padiglione auricolare; i The Smile, la prima band della quale scrissi su questa incosciente webzine che mi concede carta bianca, nella selezione musicale durante l’attesa. Per un adepto della religione delle coincidenze, segnale migliore non poteva esserci.


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È accompagnato da una band di quattro elementi.
Partendo dal fondo del palco si incontra il suo classico monogramma in duplice versione, stilizzata su tela e luminosa.
Avanzando di un passo verso il pubblico troviamo Francesco Chimenti al basso elettrico, violoncello, tastiere e cori, un pianoforte verticale e Davide Savarese alla batteria. Arrivando sul fronte del palco ammiriamo WhiteMary, al secolo Biancamaria Scoccia, alle prese con elettronica, computer e cori, e alla sua sinistra l’immancabile e insostituibile Giorgio Maria Condemi alle chitarre che, in alcuni momenti, condivide con Motta anche il ruolo di frontman.

L’artista nato a Pisa, ma livornese d’adozione (una combo di assoluto rispetto) apre da solo al piano. Sull’arpeggio in tempo ternario di ‘Anime Perse‘ si innesta il violoncello – le atmosfere sono un po’ alla Thom Yorke (si ascolti ‘Suspirium‘). La canzone, crepuscolare, autunnale, decadente, introspettiva, si espande, maestosa, con l’entrata di tutta la band.

La passerella iniziale è tutta per il nuovo album e il rock la fa da padrone nei due pezzi che seguono.
La title track dell’album è un incontro tra sonorità un po’ Muse un po’ Depeche Mode; aggressiva, incalzante, con suoni hard che si sposano con l’elettronica. ‘Per Non Pensarci Più‘ vede protagonista assoluta la pirotecnica chitarra di Giorgio Maria Condemi. Chiude il poker iniziale ‘Alice‘, una perla con la quale, in un tripudio di luci verdi, ci conferma di aver appreso ed elaborato in chiave personale la lezione di maestri come De Andrè e Vasco Rossi. Stasera manca la coda con l’intervento di Giovanni Truppi, ma WhiteMary ai cori se la cava egregiamente. A seguire, un salto nel passato con ‘Prima o Poi ci Passerà‘ cui si allaccia ‘E Poi Finisco Per Amarti‘, cavalcata elettroacustica lungo un sentiero tracciato da un unico accordo che sostiene il cantato ipnotico, suo marchio di fabbrica.

Motta

Motta non si risparmia sul palco e riconosce anche meriti importanti ai presenti stasera, che scandiscono correttamente il beat de ‘La Nostra Ultima Canzone‘: «siete l’unico pubblico che va a tempo». Caso più unico che raro in Italia, la patria del pubblico che batte le mani sull’uno e sul tre.
È emozionato e si vede.
Si esibisce davanti alla gente della città che lo ha adottato, come ricorda prima di eseguire ‘Via della Luce‘; come all’inizio seduto al piano e accompagnato dal violoncello per una dichiarazione d’amore a Roma. Poi l’ospite a sorpresa (ma non troppo) della serata: Willie Peyote.
Tocca a ‘Titoli di Coda‘, brano dell’ultimo disco scritto ed eseguito insieme al rapper torinese. Ma prima ancora ricorda la partnership con Emergency, presente in ogni data del tour con banchetti informativi.

Sette anni fa al Quirinetta era stato per me un concerto agrodolce: intuivo un talento innegabile, ma ancora allo stato grezzo, acerbo. Oggi Motta è un artista cresciuto nella scrittura, nell’energia, nella presenza. Padrone del palco, consapevole, conduce per quasi due ore un concerto potente, senza pause e cali di tensione. Questo grazie anche all’amalgama con una band eccezionale, che gli consente di disporre del suono a suo piacimento, variandone colori, sfumature, linee e geometrie a volte rotonde, a volte spigolose; a volte regolari, a volte oblique, più spesso a spirale.

Se artisti come Lucio Corsi si candidano per essere il futuro del cantautorato rock italiano, Motta ne è a pieno titolo il presente. Non è semplice raccontare un suo concerto per il suo eclettismo artistico: passa dalle sonorità cantautorali e settantiane alla new wave dei primi anni Ottanta in ‘Quello Che Non So di Te‘; al glam-rock di ‘Roma Stasera‘ con suoni di chitarra alla Joe Perry; al minimalismo elettronico e dark di ‘Ed È Quasi Come Essere Felice‘.
In ‘Se Continuiamo a Correre‘ si muove da momenti rarefatti di atmosfera ad attacchi violenti di batteria, preludio di geyser di note e tempeste vorticose di suoni. Il tutto mentre il monogramma formato dalle cinque lettere del suo nome regala lampi di luce e davanti ad esso, lui, Giorgio Maria Condemi e Francesco Chimenti formano una trinità pagana adorata da una folla estasiata.

È l’ultima data del tour e arriva il momento dei ringraziamenti per tutti: consorte, band, manager, tecnici dietro ai mixer.
I complimenti sono meritati, l’Orion Live Club è un locale difficile da addomesticare per chi ha fatto del dar forma al suono la sua arte, ma stasera il lavoro è stato fatto al meglio.
Ci saluta con ‘Quello che Ancora Non C’è‘, brano che – bonus track a parte – chiude “La Musica È Finita”.
Una ballad da ascoltare abbracciati riposando la testa sulla spalla della persona accanto a noi.
Il violoncello va a sfumare, mentre sotto arpeggia una chitarra pulita: Francesco è in piedi davanti al suo insostituibile chitarrista di sempre, è il momento degli abbracci e forse di qualche occhio lucido sul palco.
Nelle casse arriva la musica di fine concerto, Lou Reed con la sua ‘Perfect Day‘: la cantano tutti, anche ragazze nate trent’anni dopo la sua uscita.
Già, trent’anni: alla loro fine il ragazzo non c’è ancora arrivato ma il viaggio sta procedendo bene assai.

Ciampino (RM), 24 novembre 2023

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© Giulio Paravani

Motta

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