MonoNeon, poliritmi e accordi complessi
Luoghi comuni sui musicisti pop e rock (escludendo i Mötley Crüe).
Il cantante è un egocentrico e rimorchia tantissimo.
Il chitarrista è ancora più egocentrico del cantante e si vendica alzando volume dell’amplificatore e coprendo il cantante.
L’agitarsi sul palco dei due è spesso inversamente proporzionale alla loro virilità.
Il batterista è rude, ma tanto violento sulle pelli quanto timido e dolce nella vita.
Questa combinazione lo porta ad avere più successo con le ragazze dei precedenti.
Il tastierista è l’intellettuale, quasi sempre viene da studi classici e quindi è emarginato.
Mentre il bassista… oddio, chi è il bassista?
Ah sì, il bassista o è una donna o è colui al quale a fine concerto le ragazze si rivolgono con «ah ma dai, suonavi anche tu?».
Motivo per cui, per sfatare questi cliché, un bassista deve esagerare.
E allora possiamo essere sicuri che Dywane Thomas Jr. aka MonoNeon, sia riuscito nell’intento.
Cominciamo con l’impatto visivo ispirato al dadaismo e al surrealismo· indossa sulla scena un passamontagna realizzato con centrini coloratissimi lavorati all’uncinetto e uniti a creare un mosaico di colori fluo; gialli, fucsia, arancione, verdi.
Il copricapo lascia spazio a una sottile fessura per gli occhi, occupata da occhiali simili a una maschera da sci per le giornate assolate.
Una tuta di tre taglie più larga, a quadrettoni coloratissimi completa l’opera.
Andate direttamente alla foto gallery e avrete tutto più chiaro.
Poi il suo basso, Fender Jazz Mononeon Signature: cinque corde, doppio humbucker, colori arancio carico e giallo fluo, calza extrasize a righe trasversali dello stesso colore infilata sulla paletta e penzolante.
Il basso è imbracciato al contrario, con la prima corda – il sol – verso l’alto e la quinta – il si – in basso.
Per cui utilizza lo slap sulle corde alte e il pop su quelle basse.
Basta così?
No, MonoNeon suona da mancino, pur essendo destrimane.
Personaggio eccentrico anche per la sua prolificità artistica e la versatilità della sua produzione.
Venticinque album solisti in tredici anni, tra la sperimentazione d’avanguardia – andate ad ascoltarvi “Polyneon”, il suo debutto – il funk, il soul, la musica microtonale di matrice indiana.
Mescola linguaggi e sonorità e Innumerevoli sono le sue collaborazioni; cito per brevità quelle con George Clinton e Prince e aggiungo un Grammy vinto.
Frequente è l’uso di campionamenti, polifonie, loop e dulcis in fundo il suo effetto marchio di fabbrica: il fart pedal.
Siamo italiani e quindi poliglotti per definizione, per cui non serve vi dica che la traduzione letterale sia “pedale scorreggia”.
Superfluo anche che vi spieghi i suoni che ne escono fuori.
Per gli interessati, il pedale è in vendita sul suo sito.
Sarebbe imperdonabile non vedere un artista così in tour a Roma nell’ambito della rassegna Roma Jazz Festival e alle 21.45 sono nella sala concerti del Monk quando si presenta sul palco accompagnato dalla sua rodata band: Xavier Lynn, chitarra; Charlie Brown, tastiere; Devin Way, batteria.
Devono essere stati in molti a pensare come me: la sala trabocca di persone e, cosa inaspettata, l’età media del pubblico è bassissima.
La musica nera ha da sempre grandissima presa sui giovani, tantissime le ragazze: il black and fluo strapiace e stravince.
La matrice della musica è chiaramente nera.
L’attacco del primo pezzo è funky sopra il quale si innesta la voce in falsetto.
È stato uno degli ultimi artisti a suonare con Prince e si sente, il cantato ricorda quello del genio di Minneapolis, ma non solo: si colgono anche richiami ai suoni di Lenny Kravitz e dei Red Hot Chili Peppers.
Del resto, proprio Flea – a proposito di bassisti poco appariscenti – si espresse nei suoi confronti definendolo «il più grande bassista elettrico del cazzo» suonando con lui in una jam passata alla storia tra gli amanti dello strumento, sia per la musica che per l’outfit dei due.
Se la curiosità vi possiede, potete trovarne testimonianza sul web.
Funky, soul, jazz, ma non solo.
La sua musica fa il paio con l’ardito accostamento di colori del suo passamontagna e della sua tuta.
Le tastiere – ben due piani Nord – e il synth analogico ampliano la ricchezza timbrica e le potenzialità espressive di ogni pezzo.
A farla da padrone sono le parti di basso, le cui frequenze sono equalizzate a dovere e spinte al massimo.
La colonna d’aria spostata da ogni nota, ben prima di provocare la vibrazione del timpano ed essere tradotta in impulso nervoso elettrico elaborato dalle aree corticali uditive del lobo temporale, è ascoltata e tradotta in emozione viscerale dal diaframma.
Il corpo inizia a muoversi non più governato dalla volontà e danza facendo oscillare bacino e basso ventre.
Per cui cari bassiste e bassisti, sappiate prendervi la vostra rivincita: è il cervello delle persone a non accorgersi di voi; carne, sangue, viscere – quello che conta se suonate rock, soul, funky, blues – sono a vostra disposizione.
E MonoNeon la rivincita se la prende eccome.
Va bene le progressioni armoniche, i poliritmi, la complessità degli accordi.
Ma se suoni black, senza corpo non vai da nessuna parte.
C’è tanto jazz nei fraseggi del piano di Charlie Brown e anche una buona parte di rock nei suoni di Telecaster di Xavier Lynn.
Ma è la batteria di Devin Way e il suo incastro con il groove del basso, a fare il lavoro sulfureo e sai chi ringraziare per le scariche elettriche che continui a sentire a livello pelvico.
Provo a riprendere contatti con la realtà del qui ed ora e mi concentro nel seguire i movimenti delle mani durante i fraseggi funky in slap e pop su un basso con le corde al contrario.
Oppure le armonizzazioni a quattro voci dei ritornelli di alcuni pezzi.
Ma sono compiti troppo gravosi per cervelli temporaneamente messi in stand by.
A proposito di questo, ‘Wonderland Disaster Queen‘ vince la palma del brano più allucinato.
Un brano in sei ottavi, armonicamente anarchico, con il basso e la voce carichi di effetti che fanno da contraltare a un testo carico di drammaticità e lirismo.
C’è spazio anche per il rock- blues, ovviamente riletto a modo suo.
‘Women, Water & Weed‘ potrebbe essere cantato da Joe Cocker, Thomas ci costruisce un basso passato in un octaver e overdrive.
Mi stupisco di come faccia a resistere l’accordatura del suo Fender Jazz, che non cambierà mai durante tutto il live.
Mi meraviglio anche di come tenga duro lui sotto il passamontagna e la tutona dadaista.
Ma non è tempo di troppe domande, si torna ad agitare il corpo con groove funky martellanti.
Ma non sarebbe surrealista fino in fondo se non ti spiazzasse.
Lo fa con brano che riprende, oserei dire omaggia consapevolmente, ‘I.G.Y. (What a Beautiful World)‘ di Donald Fagen.
Chapeau!
Il concerto è di quelli che ti restano dentro e rasenta la perfezione: fuori scala l’eccezionalità dei musicisti, i pezzi hanno tiro e sanno sorprendere.
Unica zona d’ombra: a volte visto dal sottopalco la sensazione è che ci sia un sottile autocompiacimento e un velo autocelebrativo.
Niente di male, ma l’artista trascura un po’ troppo l’interazione e il coinvolgimento in prima persona del pubblico: troppo spettatore e poco protagonista.
Per essere più chiari, se fosse stata una band africana, del Mali, del Senegal, della Nigeria, o di dove volete voi, nel giro di pochi minuti il concerto sarebbe diventato un delirio collettivo e nella sala se ne sarebbero viste delle belle.
Probabilmente non è ciò che l’artista desidera, ma è quello che un po’ mi sarei aspettato io.
Abbiamo citato e nominato una serie di grandi artisti.
Ma forse, uno di quelli può aver maggiormente ispirato MonoNeon nel costruire la sua personalità artistica è Frank Zappa.
La lezione sembra averla imparata e messa in pratica. Improvvisa, coglie spunti e ispirazioni da generi musicali e sonorità apparentemente inconciliabili tra loro.
Trita, mischia, frulla, ingerisce, digerisce e poi, come è naturale dopo un processo digestivo, ci saluta con la cosa più zappiana in assoluto: via libera al fart pedal e con una salva di sonore ed eterogenee scorregge prende commiato dal pubblico del Monk.
Questo è tutto.
Proooot!!!