Metal Park 2024 | Day 01 | Bruce Dickinson
Romano D’Ezzelino (VI), 6 luglio 2024
Photo Gallery © Arianna Govoni
Organizzato da Vertigo in collaborazione con METALITALIA e Ama Music Festival, Metal Park è un nuovo evento open-air che si svolge in un’area appositamente attrezzata, immersa nel verde del parco di Villa Cà Cornaro a Romano D’Ezzelino, ai piedi delle Prealpi Venete e ad un tiro di schioppo da Bassano Del Grappa.
Articolato su due giornate, una più orientata verso suoni classici, l’altra dedicata a sonorità decisamente più estreme, il Metal Park nasce come manifestazione a misura d’uomo – green è la parola d’ordine, ed in effetti, data la collocazione, più green di così non potrebbe essere. Il festival viene definito plastic-free – con la prima consumazione ottieni quel bicchiere che ti accompagnerà per tutto l’arco della manifestazione, e che potrai alla fine restituire. A rendere tutto ciò più vivibile di altre manifestazioni similari, il grande parcheggio situato a breve distanza dal sito, le ampie zone d’ombra, le aree attrezzate di tavoli e panche per consumare in tranquillità cibi e bevande, una buona dotazione di bagni e, dulcis in fundo, la disponibilità gratuita di acqua potabile. Anche la questione token è stata gestita quanto meno decentemente, con prezzi concepiti a multipli interi e che con un minimo di calcolo consentono un utilizzo totale dell’acquistato. Però una pecca dobbiamo segnalarla: la totale assenza di caffè, soprattutto per chi a tarda notte deve farsi duecento e passa chilometri per rientrare a casa.
Il vostro umile reporter ha partecipato alla prima giornata, come si diceva dedicata a sonorità più classiche. Espletate le modalità di ingresso e ritirato l’accredito, ci fiondiamo sotto il palco dove da qualche minuto stanno suonando i Moonlight Haze, band nostrana dedita ad un power metal sinfonico di matrice melodica. Fondata dalla front-woman Chiara Tricarico (ex-Temperance) e dal batterista Giulio Capone, il breve set della band si è fatto apprezzare per coesione, concretezza e professionalità. E se gli occhi (e le orecchie) del pubblico sono inevitabilmente catalizzate dalla voce e dalla presenza scenica della Tricarico, non possiamo trascurare l’apporto dei suoi compagni di avventura, con particolare menzione per il guitar-work di Marco Falanga. Carina l’idea delle ‘uniformi’ indossate dai componenti della band, quasi ad esternare il senso di comunione esistente in seno al gruppo.
Il ruolino di marcia impone tempi ben precisi, con mezz’ora di stacco tra un gruppo e l’altro, giusto il tempo di gestire i cambi di palco ed aggiustare i suoni. Un plauso a tutti gli addetti ai lavori che hanno lavorato per garantire i tempi previsti (di una precisione quasi svizzera per tutto l’arco della giornata), e mantenere alta la qualità audio – in tutta la serata abbiamo sentito davvero bene e con volumi adeguati ai generei proposti.
La seconda band in programma rappresenta per chi scrive un salto temporale all’indietro di circa 45 anni. Si era ragazzini all’epoca quando la new wave of british heavy metal muoveva i suoi primi passi, portando alla ribalta una nuova generazione di musicisti, usciti indenni dalla regressività del rock progressivo, e sopravvissuti all’ondata nichilista del punk. Tra loro c’erano anche i Tygers Of Pan Tang, una delle prime band di quella scena a trovare casa presso una major (la MCA). In seno alla band ha militato per un certo periodo anche John Sykes, giovane di belle speranze destinato a diventare in futuro una sorta di divinità chitarristica, quando il buon Phil Lynott – che stupido non era – lo volle accanto a sé nei Thin Lizzy. Quasi mezzo-secolo dopo, i Tygers sono ancora tra noi, guidati dall’unico superstite della formazione originale, il grande capo Robb Weir. C’è molta Italia in questa versione delle tigri, che hanno trovato in Iacopo Meille (in formazione dal lontano 2004) un front-man d’eccezione, e più recentemente in Francesco Marras un chitarrista ed un compositore sopraffino. Purtroppo, è stata loro concessa una sola mezz’ora, comunque sufficiente per riesumare alcuni brani storici, come l’iniziale ‘Euthanasia’ che ha contribuito a far sgorgare un principio di lacrime a chi scrive, passando per ‘Suzie Smiled’, ‘Hellbound’ e ‘Love Don’t Stay’. Senza nulla togliere al boss Robb Weir ed alla solida sezione ritmica con Huw Holding al basso e Craig Ellis alla batteria, sono i nostri due connazionali che catalizzano l’attenzione di un pubblico non ancora numerosissimo, ma decisamente partecipe. Non mancano anche un paio di brani della nuova era (‘Keeping Me Alive’ e ‘Back For Good’ dall’ultimo album ‘Bloodline’) e, per finire in bellezza, la cover di ‘Love Potion no. 9’ dei The Clovers, uno dei singoli estratti da ‘The Cage’ del 1982, il disco con cui purtroppo terminò la prima fase della carriera dei Tygers.
Purtroppo, nei grandi festival i ritmi serrati e la numerosità degli ospiti impone tempi di esibizione esigui, soprattutto per i primi gruppo, rimane il fatto che per un’altra mezz’oretta ce li saremmo gustati volentieri.
Dopo il classico hard rock delle tigri anglo-italiane, al Metal Park è tempo di power metal. Un boato accoglie gli alfieri nazionali del metallo sinfonico, i Rhapsody Of Fire. Pur non amando particolarmente queste sonorità, restano indubbie le capacità compositive ed esecutiva di una band rodatissima, che può contare ancora una volta un cantante d’eccezione come Giacomo Voli, che dal 2016 ha raccolto la pesantissima eredità di un vocalist altrettanto d’eccezione come Fabio Lione, senza peraltro farlo particolarmente rimpiangere, anzi. Anche per loro una canonica mezz’oretta a disposizione, in cui comprimere passato e presente. ‘Unholy Warcry’ è l’urlo di battaglia con cui viene inaugurato il set, subito seguita da una ‘I’ll Be Your Hero’ su cui il parterre comincia a movimentarsi prima di sfociare nei primi circle-pit, giustamente invocati da un Giacomo Voli in cotta di maglia, perfettamente calato nel ruolo dell’eroe medievale. Con ‘Challenge The Wind’ si celebra il nuovo album, prima di tornare al passato con ‘Dawn Of Victory’ e chiudere alla grande con l‘inneggiante ‘Emerald Sword’ tra gli applausi e l’entusiasmo del versante più ‘true’ del pubblico accorso in quel di Romano D’Ezzelino.
Con l’ingresso in scena di Richie Kotzen si cambia totalmente registro. L’ex enfant-prodige del chitarrismo mondiale è diventato un distinto ed elegante cinquantaquattrenne brizzolato, che da quella chitarra tira fuori suoni stratosferici. Quando si dice che a volte piove sul bagnato, qualcuno da lassù ha pensato bene di donare ad uno dei migliori strumentisti della sua generazione un talento vocale assolutamente in linea con il talento chitarristico. Detto in cattivo francese, ha una voce da paura, e vi sfido a dare torto a chi, sentendolo cantare, tirasse fuori un nome ingombrante come quello del compianto Chris Cornell. Oggi sul palco del Metal Park non c’è spazio per le illustri collaborazioni che ne hanno costellato la carriera (Mr. Big, Poison, The Winery Dogs, Adrian Smith), il focus è sulla propria carriera solista, da cui viene estratta la totalità dei (purtroppo) pochi brani presenti in scaletta. Al suo fianco due comprimari poco noti, ma straordinariamente efficaci come Dylan Wilson al basso e Kyle Hughes alla batteria, a costruire la base ritmica su cui si innestano la voce e la chitarra di un Richie Kotzen ispiratissimo, che passa con estrema nonchalance dall’hard rock al soul al blues. Tra gli highlights citiamo una superba ‘War Paint’ ed una struggente ‘Fooled Again’, ma considerata la qualità dell’esecuzione, qualsiasi cosa avesse deciso di suonare sarebbe andata bene comunque.
Nel contesto della manifestazione possiamo dire che il set di Kotzen abbia rappresentato la ‘calma’, ma sappiamo bene che dopo la calma di solito arriva la tempesta e questa sera la tempesta arriva dalla Finlandia, grazie al Signor Matti Antero Kristian Fagerholme, in arte Michael Monroe. Ora affermato solista, Monroe usava fronteggiare quell’esplosione di energia che furono gli Hanoi Rocks, leggendaria e seminale formazione senza la quale probabilmente gente come Mötley Crüe, Gun’N’Roses e grosso modo tutta la scena sleaze/glam che ha dominato gli ‘80s non sarebbe mai esistita. Signore e signori, questa sera va in scena il rock’n’roll, nella sua forma più selvaggia, incontaminata ed inedulcorata. Con al fianco il fedele Sam Yaffa, compagno dai tempi degli Hanoi e dei Demolition 23, ed un personaggio come Steve Conte, dalle origini dichiaratamente italiche ed un passato illustre che lo ha visto tra le file dei New York Dolls e dei poco conosciuti (ma assolutamente validi) Company Of Wolves, il buon Michael questa sera non farà prigionieri e insegnerà a tutti una cosetta o due su cosa vuol dire stare su un palcoscenico. Nell’ora a disposizione non è stato fermo un secondo, rimbalzando sul palco come una pallina da flipper impazzita ed esibendo tutte le mosse che ne hanno reso famose le performance, dalle spaccate fino al bagno di folla in piedi sulla transenna che non riesce a tenerlo separato dal suo pubblico, fino a scalare pericolosamente i tralicci laterali del palco su cui si appollaierà per cantare ad una quindicina di metri da terra. Della serie, 62 anni e non sentirli. In scaletta troviamo diversi estratti dalla produzione solista, da ‘Dead, Jail or Rock’n’Roll’ a quel manifesto di decadente debauchery che è ‘Ballad Of The Lower East Side’ passando per ‘Murder The Summer Of Love’ fino ad arrivare ad un finale da delirio totale quando quasi a sorpresa riesuma lo sleaze/punk dei Demolition 23 con ‘Nothing’s Alright’ e ‘Hammersmith Palais’, per poi finire celebrando gli Hanoi Rocks con una memorabile ‘Malibu Beach’ per poi chiudere in bellezza con quello che è stato il singolo di maggior successo degli Hanoi, quella ‘Up Around The Bend’, cover del celebre brano dei Creedence Clearwater Revival. Concerto bomba, per chi scrive vincitore assoluto della serata.
Il sole che aveva regnato fino a questo momento inizia a nascondersi dietro a nuvole dall’aspetto poco amichevole, piacevole dopo un intero pomeriggio passato al caldo ma scrutando l’orizzonte non riusciamo a nascondere un minimo di preoccupazione per quello che sarà il resto della serata, che prosegue con l’ingresso in scena degli Stratovarius. La band di Timo Kotipelto e Jens Johansson ingrana subito la quarta con la title-track dell’ultimo album, ‘Survive’, tra le ovazioni di un pubblico che anche questa sera non tradisce l’amore pluriennale che prova per questi assi del power metal finlandese. E sentitamente la band ricambia con una prestazione tanto appassionata quanto tecnicamente priva di sbavature, con un Kotipelto in grande spolvero, gli usuali magheggi strabordanti alle tastiere di Johansson e l’ottima performance alla chitarra di Matias Kupianen. In set-list una decina di pezzi, tra cui l’esaltante trittico (‘Black Diamond’, ‘Legions’ e ‘Paradise’) che ci ricorda la grandezza di un album come ‘Visions’, ed un finale in crescendo con ‘Unbreakable’ e ‘Hunting High And Low’. Si può non essere fan di questo genere, ma di fronte ad una prestazione come quella di questa sera è oggettivamente difficile mettere in discussione la rilevanza di una band che quel genere ha contribuito a crearlo e a farlo evolvere.
Il cielo si è ulteriormente oscurato e proprio mentre incominciano a suonare i The Darkness, ecco cadere le prime gocce di pioggia. Quella che sembrava una piacevole pioggerellina passeggera utile per dissipare il calore accumulato durante la giornata incomincia ad aumentare preoccupantemente d’intensità fino a trasformarsi in un vero e proprio acquazzone estivo, costringendo chi non ha avuto la previdenza di portarsi un qualcosa di impermeabile a cercare rifugio sotto i tendoni degli stand, mentre il buon Justin Hawkins ironizza simpaticamente equiparando il meteo di quest’oggi a quello notoriamente umido della perfida Albione. Incuranti della pioggia battente che sta lavando il pubblico, Hawkins e compagni danno vita al loro concerto, sempre giocato tra il serio e faceto con quella sfrontatezza ed indole totalmente british che li rende una delle band più divertenti da gustare in sede live.
Hawkins è in forma fisica e vocale smagliante. Ironico ed irriverente come sempre, pare l’antitesi del fratello Dan, relegato alla ritmica in seconda linea e vivace come un capitello corinzio. Lo spettacolo nello spettacolo lo fornisce Frank Poullain, capelli, baffi ed occhiali che più improbabili non si potrebbe, è la spalla perfetta per l’istrionico Justin. Il suo apporto al basso è comunque fondamentale nell’economia della band, la cui sezione ritmica si completa con Rufus Tiger Taylor, il figlio di Roger Taylor dei Queen. Nell’ora e un quarto a disposizione la band snocciola grosso modo tutti i pezzi che ne hanno decretato il successo, concentrandosi in particolar modo sul debut ‘Permission To Land’, che da solo occupa gran parte della scaletta. Ecco così scorrere via l’iniziale ‘Growing On Me’, ‘Get Your Hands Off My Woman’ e ‘Love Is A Feeling’.
Al termine di una ‘Friday Night’ cantata insieme al pubblico il buon Justin si mette a dirigere i cori di ‘Olè Olè’ accompagnandoli con la chitarra, e dopo un’apprezzatissima ‘Japanese Prisoner Of Love’ arriva il momento di farci ascoltare quello che probabilmente va considerato il brano più popolare della loro intera discografia, e per celebrare adeguatamente la cosa il buon Justin invita sul palco Richie Kotzen, facendo registrare uno dei momenti più alti dell’intera giornata. Tra un brano e l’altro ai Darkness piace stuzzicare il pubblico con delle improvvisate, ecco così apparire dal nulla una ‘We Will Rock You’ buttata lì un po’ a caso, che tanto è come il nero e sta bene dappertutto ma anche una ‘Immigrant Song’ che presto si trasforma in una ‘Love On The Rocks With No Ice’, il brano che chiude il set e sigilla così la partecipazione dei Darkness al Metal Park.
Su Romano D’Ezzelino sono già calate le ombre della sera, ha smesso di piovere (anche se qualche goccia ancora la farà più tardi) e tutto il pubblico non attende altro che prenda il via il clou della serata. Accantonati temporaneamente gli Iron Maiden per dedicarsi al suo nuovo album solista “The Mandrake Project”, quello di Bruce Dickinson è uno dei tour più gettonati dell’estate, e le (buone) notizie che giungono da Roma dove ha suonato la sera prima non fanno altro che innalzare il livello delle aspettative.
La preparazione del palco per il concerto prende qualche minuto più del previsto, d’altronde sappiamo tutti quale livello di perfezionismo richieda il buon Bruce. Finalmente sui spengono le luci, dal PA viene diffuso lo spoken-word di ‘The Prisoner’ che accompagnano l’ingresso in scena di Dickinson e dei suoi musicisti. Zero chiacchiere, un paio di ‘Are you ready’ e via con ‘Accident Of Birth’, il brano che apre il concerto e che ci consegna un Bruce Dickinson smagliante non solo nella forma fisica ma anche e soprattutto in quella vocale, davvero impressionante considerato che il ‘ragazzo’ tra meno di un mese compirà 66 anni.
Nonostante la relativamente recente uscita di “The Mandrake Project”, in questo tour da quel disco vengono presentati tre brani (‘Afterglow Of Ragnarok’, ‘Rain On The Graves’ e ‘Resurrection Men’), lasciando ampio spazio alla produzione solista passata ed in particolar modo a quel capolavoro che è stato “The Chemical Wedding”. Non mancano gli estratti da “Balls To Picasso” con ‘Laughing In The Hiding Bush’ e soprattutto con una ‘Tears Of The Dragon’ che le lacrime non le ha fatte versare solo al drago, ma anche a buona parte degli spettatori presenti.
«Questo pezzo penso lo conosciate tutti, ha significato molto per me e penso anche per voi», annuncia Bruce prima di spazzare via tutto con un’interpretazione letteralmente da brividi.
Nonostante non sia stata assemblata da troppo tempo, la backing band appare già solida e ben coesa nonostante l’assenza forzata di Roy Z, al cui posto sono stati reclutati Chris Declercq e Philip Naslund. A completare la line up, la bassista Tanya O’Callaghan, il batterista Dave Moreno e alle tastiere l’italianissimo Mistheria. Dal punto di vista visivo, lo stage si presenta piuttosto scarno e le uniche scenografie presenti sono limitate agli audiovisivi a tema che scorrono sul grande maxischermo posto sul fondo del palco stesso, che comunque contribuiscono a creare l’atmosfera giusta per i brani che via via scorrono, fino alla conclusione del man-set con ‘Darkside Of Aquarius’.
Il concerto e la prima giornata del festival si avvicinano al temine, ma c’è ancora il tempo per gli encore, con ‘Navigate The Seas Of The Sun’, ‘Book Of Thel’ e per finire alla grande una sontuosa ‘The Tower’.
Gran concerto, e pubblico che lascia l’area del festival con un gran sorriso sulle labbra a mitigare la stanchezza di una giornata intensa, e che domani si ripeterà con nuovi protagonisti, nuova musica e nuove storie da palco.