Matt Elliott, l’eleganza della ricerca sonora
In un ritrovato Init Club a Roma, quella di Matt Elliott è una grande prova d’artista
Ricerca sonora, storie di vita e riflessioni sonore per un one-man show
La sera è quella di un sabato.
Il quartiere è quello romano di Casalbertone.
Il vento è quello di scirocco che si incanala furioso tra i palazzi, come la folla nei corridoi di un centro commerciale.
L’ansia è la mia solita, aspettando un’allerta meteo che si rivelerà la più grande toppa previsionale dai tempi del sindaco spalaneve.
Ma ancora non lo so e l’immagine di me inghiottito da un fiume di fango non sloggia dalla mia testa.
Un’ultima occhiata al cielo prima di scendere le scale dell’INIT, che ha ritrovato dopo cinque anni una casa fissa, per poter dare continuità alla sua proposta musicale.
Un tempo il posto doveva essere una sala giochi, la legalità dei quali è lasciata all’immaginazione.
Le due rampe di scale portano in un locale interrato. Davanti subito il bar, sulla destra un ufficio ricavato con un separé a tenda.
La sala è abbastanza grande e della bisca che fu conserva ancora un biliardo al centro.
Ci sono anche le stecche appoggiate al muro, i gessetti sui bordi, le palle intere e cerchiate disposte a triangolo e pronte per una partita di pool e le tre lampade verdi sopra.
Particolare non proprio apprezzato da tutti, come vedremo più avanti. In fondo il palco per i concerti.
È uno scenario postatomico, oscuro, le luci predominanti di colore blu e verde.
In sottofondo il ronzio dei ventilatori o di qualche altro macchinario acceso.
Forse il frigo del bar, forse le ventole di qualche pc.
L’ambientazione è quella di un film delle sorelle Wachowski. Se preferite di quel “Film” delle sorelle Wachowski.
Abbiamo scelto la pillola rossa, guardato in faccia la verità, sperimentato quanto sia profonda la tana del Bianconiglio.
Ora siamo siamo rifugiati qua dentro.
Cinquanta sopravvissuti, ribelli e cospiratori, nascosti al buio, tra un bancone, un palco, un biliardo e un cesso degli uomini che non scarica. E davanti a noi sale sul palco Matt Elliott.
Artista di Bristol, dalla carriera quasi trentennale. Prima con i Third Eye Foundation, progetto sperimentale elettronico, di manipolazione sonora, rumoristico, surreale, spettrale, poi coltivando e rivelando al mondo il suo lato più intimista e cantautorale.
Sempre oscuro e apocalittico, ma più intimista.
Con la violenza dell’impatto dei suoi primi lavori che ha via via ceduto il passo alla malinconia e alla disillusione.
E con la ricerca sperimentale sostituita dalla scoperta e rielaborazione delle tradizioni etnofolkloristiche della mitteleuropa e del mediterraneo.
Volendo cedere alla frenesia tutta occidentale di catalogare ed etichettare ogni esperienza, non esiterei a raccontarlo come un Peter Murphy più folk, oppure un Leonard Cohen più elettronico e dark.
Ma alla fine poco importa.
La musica è una cosa molto meno seria di quanto si possa pensare, a meno che non voglia darti un tono parlando o scrivendo di essa.
Cosa che un musicista fa assai meno di quanto si pensi.
Quello che importa invece è che indossando una semplice camicia bianchissima (il solo tra i presenti a vestire questo colore) e un paio di jeans, imbraccia la sua chitarra classica, unico strumento presente sul palco insieme a un sax tenore, e intona le prime note di ‘Farewell to All We Now’, canzone che dà il titolo al suo ultimo lavoro uscito nel 2020.
Una ninna nanna per un mondo che non tornerà più. Un addio senza rimpianti “a tutto ciò che sappiamo, che abbiamo costruito e abbiamo sprecato…mentre continuiamo a ballare”.
La voce si adagia su tonalità bassissime e appena sussurrate. La chitarra armonizza e doppia la voce tre ottave sopra. E questo abbandono finale sfuma in una lunga coda strumentale, sulla quale entrano articolate armonizzazioni vocali, che grazie a un sapiente utilizzo della loop station Vocal Performer Boss, trasformano la melodia in un maestoso e imponente canto polifonico.
Ogni voce è una faccia di un’anima abitata dalla solitudine, pervasa da disperazione, lacerata da conflitti contraddizioni. In una sola parola: arresa. L’effetto e l’impatto nel silenzio raccolto e concentrato del pubblico è sicuramente ragguardevole. Se addio deve essere, che sia rispettata la solennità del momento.
L’applauso fragoroso alla fine è un giusto riconoscimento alla sua sofferta emotività, all’intensità espressiva, alla creatività nel trattamento dei suoni e alle sue capacità chitarristiche.
A seguire il secondo pezzo, ‘The Failing Songs’, un sirtaki che sarebbe potuto star benissimo nei dischi del Marc Almond di “Motherfist and Her Five Daughters” o essere eseguita in una bettola di un qualsiasi porto greco, davanti a una bottiglia di ouzo o con i profumi di fragole, crema, uva moscata di una metaxa a regalarci l’oblio di chi ha visto troppo della vita.
Storie di vita vissuta, forse buttata.
Racconti di marinai, viaggi e tempeste e amori. La coda del pezzo ha per protagonista un sax tenore, il cui suono è manipolato allo stesso modo della voce. Sustain infiniti, loop e armonizzazioni si stratificano e si addensano riempiendo gradualmente ma inesorabilmente lo spazio sonoro.
C’è un tempo dedicato anche a un omaggio alla canzone italiana tradizionale di lotta.
A conferma della sua accurata ricerca nelle tradizioni musicali europee e in particolare mediterranee, Elliott esegue una personale versione de ‘Il Galeone’: è una canzone di lotta, il cui testo prende spunto dalla poesia “Schiavi” composta nel 1967 dal partigiano anarchico carrarese Belgrado Pedrini, adattato e musicato e inciso dalla cantautrice, ricercatrice ed etnomusicologa anarchica Paola Nicolazzi. Pur non padroneggiando appieno la pronuncia italiana, l’esecuzione dell’artista di Bristol è degna di menzione e può a pieno titolo figurare accanto alle interpretazioni che ne diedero in passato mostri sacri quali Giovanna Marini e Vinicio Capossela.
E così via a proseguire con altri rimandi alla musica etnica, a sonorità e atmosfere flamenco, dall’interno delle quali emergono, come flutti da un mare in tempesta, fantasmatiche voci naufraghe, che con gli effetti di reverse loop aggiungono inquietudine e oscurità agli andamenti spagnoleggianti dei pezzi.
I brani si susseguono in un’atmosfera di silenzio e concentrazione, interrotta solo per un attimo da qualche disturbo proveniente dal biliardo al centro della sala, per il quale l’artista manifesta un certo disappunto, peraltro in modo assolutamente compito ed educato.
Fortunatamente è una parentesi che si chiude presto.
I brani presentano tutti una struttura riconoscibile, quasi un marchio di fabbrica.
Apertura affidata alla chitarra classica, sulla quale entra la melodia del cantato.
Spazio poi all’utilizzo dei loop, prima con le parti di chitarra e poi con quelle vocali.
Chiusura con il sax tenore, del quale Elliott non è un virtuoso e il cui intervento nei pezzi potrebbe limitare un po’ di più.
Accorciando le interminabili code delle canzoni, ridurrebbe un po’ la prevedibilità e la ridondanza e con esse il rischio di stasi energetica, a vantaggio di una maggiore incisività. È il solo neo che trovo alla sua esibizione. Ma è un peccato veniale, le canzoni sono molto belle e la loro esecuzione è carica di emozionalità e arriva diretta agli spettatori.
Durante l’esecuzione dei brani mi chiedo come suonerebbero se al posto del sax ci fosse un violino, presente invece in molti arrangiamenti dei brani registrati in studio.
Ma se sei un artista non mainstream, la presenza di un musicista in più in un tour europeo oggi è un lusso che non ti puoi permettere. Nemmeno se hai notorietà internazionale e hai più di venti dischi all’attivo.
Il bis è un classico: la ‘Summertime’ di George Gershwin eseguita a più voci sovrapposte.
E così come Matt Elliott sembra non voler abbandonare il palco, aggrappandosi alla sua voce fino all’ultima nota, tenuta per un tempo indefinitamente lungo, così come a volte tutti noi cerchiamo di dilatare e rallentare inutilmente il tempo che ci resta, quando invece faremmo meglio a dire addio senza rimpianti “a tutto ciò che abbiamo imparato ad amare”.
Già, il tempo.
Il tempo che alla fine mi resta per risalire le scale, ritrovarmi all’aperto, tornare a guardare quel cielo che avevo scrutato per un attimo con una punta di apprensione.
E dire addio definitivo all’estate.
Madonna come scrive bene sto Giulio Marino