Marta Del Grandi, nata sotto il segno dei Pesci
I nati sotto il segno dei Pesci si riconoscono per la loro empatia. Più complessi degli altri segni zodiacali, devono comprendere alcuni misteri della vita per essere felici. Sono influenzati dal pianeta Nettuno, che governa i sogni, le capacità psichiche, la creatività e la metafisica. Ciò conferisce loro spiccato senso intuitivo e talento artistico. Nettuno è anche associato alla musica, pertanto i Pesci potrebbero possedere una predisposizione innata per l’arte di Euterpe e un dono unico per la poesia. Il loro simbolo è associato al ciclo della vita. Sono fantasiosi, romantici, sognatori, emotivi e sensibili, timidi. Dai Pesci muove il ciclo dell’evoluzione animale che, passando per i vertebrati ha portato alla comparsa degli esseri umani. I nati del segno comprendono questo ciclo in modo molto intuitivo e sono quindi molto gentili con gli altri.*
E si lamentano sempre.
Almeno secondo Marta Del Grandi, autrice, cantante, compositrice, viaggiatrice, esploratrice, sperimentatrice, cuore aperto al mondo e nata sotto il segno dei Pesci.
Per aver chiaro la qualità delle vibrazioni della sua performance in un’insolita matinée domenicale del Monk.
A differenza sua invece, sono dell’Ariete e devo stare molto attento: quando entro nel dominio delle emozioni e del sentimento divento somigliante a un elefante che, carico di tre Negroni, va a far visita a una cristalleria. D’altra parte, solo un Ariete può svegliarsi alle 11.15 di domenica mattina, comprimere in 45 minuti doccia, caffè, vestizione e trasferimento di 30 chilometri fino al Monk. Anche la nuvola più grigia nasconde al suo interno un rivestimento d’oro.
Ma perché tutto questo?
Perché Marta Del Grandi mi incuriosisce.**
Inizia a studiare musica quasi per caso, seguendo un input della mamma, e si iscrive alla Civica Scuola di Jazz di Milano – per capirci, quella fondata da Franco Cerri.
Frequenta i primi laboratori, le prime jam session nei diversi locali della città che diede i natali artistici a Jannacci e Gaber. Arrivano i primi concerti e poi le serate a cantare standard su standard. Si appassiona e realizza che potrebbe diventare qualcosa di più. Il passo successivo è il Conservatorio, dove di jazz se ne respira poco, e così con una borsa di studio Erasmus, si trasferisce a Gent, nelle Fiandre. Il jazz diventa un punto di partenza dal quale esplorare l’universo dei suoni fuori e dentro sé stessa. Ed evidentemente dentro di sé scopre musica che aspettava solo di essere donata al mondo. Coinvolge amici del conservatorio in un progetto chiamato MartaRosa che nel 2016 pubblica il primo album, “Invertebrates”.
Poi molla tutto e parte per l’Asia. Cina, Nepal e proprio a Katmandu rimane a vivere tre anni. Torna in Italia, ricontatta gli amici musicisti di Gent, e nel 2021 registra e produce il suo primo lavoro solista: “Until We Fossilize”.
I riscontri sono buoni, anzi ottimi. Arriva un contratto con la Fire Records, etichetta inglese indipendente di rilevanza mondiale.
Nel suo rooster ci sono (o ci sono state) band come Pere Ubu, Teenage Fanclub, Built to Spill, Pulp, Urge Overkill, The Lemonheads, Spacemen 3 e via dicendo. Cose anche diverse dalla musica da lei prodotta. Intanto il suo nome inizia a girare; suona in Germania, Olanda, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Regno Unito, India, Nepal, Thailandia e non so dove altro ancora. Arrivano i nostri giorni e con essi “Selva”, suo secondo lavoro, contenente a oggi, la sua unica traccia in lingua italiana (avremo modo di parlarne).
Ecco, perché mi incuriosisce Marta Del Grandi.
Non vi sta bene?
Andate a fare… le audizioni per qualche talent.
È il giorno più freddo dell’anno.
Anche se l’anno è il più caldo della storia del pianeta Terra, la botta si fa sentire, ma grazie ad essa quando entro nella sala teatro del Monk posso dirmi del tutto sveglio.
È sveglia, sveglissima anche lei, nonostante racconti di un numero di ore di sonno che possono contarsi sulle dita di una mano. Viene da Bologna, dove ieri sera si è esibita fino a tardi; la accompagnano Iris Soledad Galibariggi – sax baritono, cori, tastiere – e Gabriele Segantini, batteria, percussioni e controller midi attraverso il quale suona le linee di basso – mi viene tuttavia suggerito che “pischelli” direbbero: «suona un virtual bass con il controller».
Imbraccia la chitarra elettrica ed è emozionata Marta, o infreddolita. O semplicemente non si aspettava di vedere tutta questa gente per lei in una gelida domenica mattina del mese di novembre. Scelgo di immaginarla emozionata, mi piace di più, perché siamo emozionati anche noi.
Marta arriva dolce, eterea, intensa, suadente. Ma non solo.
Arriva e colpisce, chirurgica, diretta. Me ne accorgo dall’assordante suono del silenzio in sala.
Dall’attenzione del pubblico proiettata tutta su quello che sta accadendo sul palco.
Puoi riuscire a sentire ogni suo respiro e ogni minima sfumatura timbrica; la sua musica sale in alto e poi improvvisamente sorprende con soluzioni armoniche e timbriche inaspettate, mentre la voce indugia piacevolmente in giochi di botta e risposta con la batteria.
Crea attesa e tensione; hai la sensazione di volare appeso alla sua voce, un filo che essa stessa può decidere di tagliare. Quelli che di musica se ne intendono davvero, chiamano in causa David Lynch per render conto delle atmosfere da lei create. Posso solo che dar loro ragione.
Ma, ciliegina sulla torta, rivela un senso dell’umorismo sottile, arguto, giocato su pause naturali. Completamente inaspettato e dunque irresistibile.
Una voce che dà forma alle canzoni e si regge con personalità anche senza strumenti a sostenerla.
Caratteristica, nella mia personale opinione, distintiva ed esclusiva di artiste provenienti da una particolare parte del mondo.
Sullo schermo del mio smartphone appunto due parole: “voce irlandese”. Scoprirò successivamente della sua passione tardoadolescenziale per la musica del paese di Sinéad O’Connor e Dolores O’Riordan.
Sorride e non perde mai il contatto oculare con il pubblico; i movimenti delle sue mani danno consistenza e ulteriore volume alle note, come una bambina che gioca e crea sculture e forme con plastiline multicolori.
Altre volte accenna a muoversi come una ballerina classica.
Il timbro, le soluzioni armoniche e gli arrangiamenti, da una parte rivelano la matrice jazz delle sue origini e lo sguardo rivolto alle folksinger celtiche e nordeuropee, dall’altra, mi raccontano il suo aver assorbito linee che rimandano alle linee melodiche della canzone francese (lo so, le Fiandre hanno assai poco di francese,).
Quindi certamente il mondo di Emiliana Torrini, Sandy Denny, ma anche quello di Jane Birkin o Nico, che anche lei ha ben poco di francese, ma in un disco leggermente importante (uno a caso) è accreditata come chanteuse.
Quindi ci siamo.
Marta Del Grandi racconta storie e sa farlo in modo appassionato.
‘Marble Season‘ è la traduzione in musica di un periodo difficile trascorso in Nepal, tra litigi con persone care e cani che mordono il volto. La voce si assottiglia, mentre un tappeto sonoro cupo e vaporoso sembra possa fagocitarla e farla sparire da un momento all’altro.
‘Selva‘, title track dell’album, è il suo primo esperimento in lingua italiana.
L’intro che non ti aspetti mi sbatte davanti agli occhi una visione fiabesca, allucinata e psichedelica degna del Roger Waters di “Ummagumma” (si ascolti ‘Several Species of Small Furry Animals…‘).
Dalla foresta emerge una ninfa del bosco intona ciclicamente un canto su una base polifonica di voci mandate in loop.
«Sentieri tortuosi, si intrecciano stretti, in forme mai viste il cuore si perde»: sono tredici parole nella nostra lingua che non sa ancora se avranno un seguito.
Avremo modo di scoprirlo.
Una ninfa, come Ametista, di cui racconta il mito in ‘Amethyst‘, canzone che prende forma in uno spazio tridimensionale tra folk, dream pop, elettronica, in cui le voci sue e di Iris Galibarrigi si rincorrono ciclicamente in un canone polifonico. E un ciclo lo chiudo anche qui.
L’ametista è la pietra del segno dei Pesci, il cristallo che forma un ponte tra la realtà spirituale e quella quotidiana.
Protegge i nati del segno dalle energie negative emanate dalle persone e dall’ambiente che, per la loro natura ipersensibile ed empatica tendono ad assorbire.
Ma con ogni probabilità esercita i suoi effetti positivi anche sui nativi del segno dell’Ariete: esco dal Monk con la leggerezza di chi ha visitato una bottega di cristalli godendone della lucentezza e della bellezza.
E, soprattutto, senza aver provocato danni da tre o quattro zeri dopo la prima cifra.
E per un Ariete, ascendente in Leone, è un risultato da evidenziare con un cerchietto intorno.
Di colore viola.