Marilyn Manson live a Roma: un Reverendo stanco
Il 25 luglio 2017 sono andato a messa dal Reverendo Marilyn Manson – o almeno, questo era quello che mi aspettavo andando verso l’Ippodromo di Capannelle per una delle date più attese a cartellone del Postepay Sound Rock In Roma.
Ho 28 anni e amo Marilyn Manson da quando ne ho 14.
Amo la sua musica e i suoi testi.
Amo il suo personaggio.
Amo l’aura apparentemente negativa costruita per attirare critiche.
Amo la sua estetica.
Forse, ingenuamente, sognavo uno show all’altezza delle mie aspettative costruite in anni di adorazione, ma a fine concerto in bocca mi sono ritrovato con un sapore agrodolce: soddisfatto ma non convinto.
Certo, ovviamente lo spettacolo è stato interessante e la band ha regalato al pubblico sicuramente le vibrazioni che cercavo e che condivido con tutti gli amanti del Reverendo, soprattutto durante l’esecuzione delle canzoni più note – come ‘This is the New Shit‘, ‘Mobscene‘, ‘The Dope Show‘, ‘Coma White‘, l’immancabile cover di ‘Sweet Dreams (Are made of this)‘ degli Eurythmics e la bellissima ‘The Beautiful People‘.
Mariln Manson ha inoltre presentato tre brani inediti del nuovo album in uscita, “Heaven Upside Down” – ‘Say10‘, ‘Revelation #12‘ e ‘We Know Where The Fuck You Live‘, dando un assaggio di ciò che arriverà nel prossimo futuro della sua carriera.
Sono stato contento di ascoltare live anche ‘No Reflections‘ e ‘Deep Six‘, brani tratti dall’ultimo lavoro in studio, “The Pale Emperor”, ma nel complesso lo show ha lasciato qualche perplessità.
Manson ha costruito il suo personaggio imbevendolo in una miscela di astio e rifiuto verso il mondo come verso il suo pubblico.
Un rigetto costruito ad arte, che si è scatenato contro chiunque ma sempre nella sacra ottica della dissacrazione.
Al Postepay Sound Rock In Roma sembrava invece recitare sé stesso che recita il suo personaggio: sembrava distante.
Certo, sulle note dei pezzi più inflazionati il pubblico si è infiammato con poco (me compreso) e dal palco il Reverendo ha ben saputo alimentare queste fiamme con gesti, movimenti e posture, le stesse che lo hanno reso famoso.
Ma è bastato un nonnulla affinché la magia finisse, per vedere Marilyn Manson tornare velocemente ad essere Brian Warner: un tizio leggermente sovrappeso a cui è morto il padre neanche venti giorni fa e che a quasi 45 anni non ha più la grinta di prima.
E giustamente, oserei dire.
Lo show ha presentato una dualità che ha lasciato impressi dei dubbi: da una parte la scarna struttura del palco, dall’altra i continui cambi di abiti (stupendi).
Da una parte i trampoli e i microfoni a forma di pugnale o di manganello, dall’altra la sensazione di vederlo recitare uno spettacolo che ormai conosce a memoria e che non scandalizza più nessuno, se non l’anacronistico gruppo di preghiera contro la musica satanica che richiama alla mente il dialogo sul grammofono del bellissimo “Ricomincio da tre” di Troisi.
Questo contrasto non lascia capire se Manson sia in balia del suo personaggio che ormai è stanco di interpretare, o se questa sia la preparazione ad un cambiamento: una fase di stallo in cui si gettano le basi per l’evoluzione di un personaggio, che in un modo o nell’ altro dovrà affrontare la maturità per non rischiare di diventare tutto quello che ha sempre criticato, cioè una marionetta grottesca al soldo delle case discografiche.
In cuor mio lo amo ancora e voglio credere in un futuro in cui la sua capacità di dipingere i mali e gli incubi della società vada di pari passo con la sua maturità artistica e umana.