Marillion Weekend Italy: all one t(w)o-night
Avete presente quando, parlando di una band o di un musicista, ti scappa da dire che ha rappresentato la colonna sonora della tua vita?
Beh, per il sottoscritto i Marillion rappresentano esattamente questo.
Li seguo dal lontano 1983, quando iniziavano a far capolino tra le pagine di Kerrang, con lo spilungone scozzese che saliva sul palco con un make-up che non poteva non ricordare i tempi d’oro dei Genesis di Peter Gabriel.
E dell’Arcangelo non avevano preso solo il trucco, ma anche le sonorità.
Certo, riviste in chiave moderna ma è chiaro che il punto di riferimento stava lì, tra “Nursery Crime” e “Foxtrot”.
Nei 17 minuti di ‘Grendel’ (fate conto che era la b-side del loro primo singolo) se non ci ritrovate parte di ‘Supper’s Ready’ vuol dire che siete in malafede.
Poi arrivano ‘Script For A Jester’s Tear’ e ‘Fugazi’, il nome inizia a girare fuori dai confini inglesi, le copertine di Mark Wilkinson diventano un trademark, il Jester dei Marillion come Eddie degli Iron Maiden.
Poi fanno quello che tutti i gruppi prog (o neo-prog, come in questo caso) devono fare: un concept album. Un’unica pièce che parla di un’infanzia, un’infanzia smarrita.
Da quel concept vengono estratti i 3 minuti e mezzo che consegneranno i Marillion alla storia del rock: ‘Kayleigh’ fa il botto e porta i 5 di Aylesbury nell’empireo delle band più osannate.
Il singolo va in classifica in mezzo mondo, addirittura qui in Italia finisce nel calderone del Festivalbar, ottenendo la quinta posizione.
Un po’ come se i Van Der Graaf Generator avessero vinto Sanremo.
Dall’esterno è difficile dire come quell’inaspettato successo abbia minato dall’interno le dinamiche della band, disgregandone le armonie.
Ancora più difficile accettarlo per chi, come il sottoscritto, tra l’83 e l’88 ha praticamente vissuto e respirato Marillion.
Arriva così l’inevitabile diaspora.
Fish, come Peter Gabriel, lascia il gruppo per intraprendere la carriera solista, lasciando agli altri 4 il compito di andarsi a cercare un cantante in grado di non far rimpiangere uno dei più grandi front-man che il progressive rock abbia mai partorito.
Compito improbo per chiunque.
La scelta ricade su Steve Hogarth, un passato negli How We Live e negli Europeans, ma soprattutto un personaggio che più agli antipodi di Fish non poteva essere.
Il primo singolo che registra con i Marillion non è incoraggiante; chi era abituato ad una ‘Script For a Jester’s Tear’ si ritrova con una ‘Hooks In You’: un potenziale passo falso che rischia di far passare sotto luce un disco invece decisamente bello come “Seasons End”, in cui ancora possiamo trovare i suoni classici dei Marillion, seppure con una voce differente.
I fasti e le vendite di “Misplaced Childhood” sono un lontano ricordo, ma disco e conseguente tour dicono che per la band può esserci ancora una raison d’être. Correva l’anno 1989.
Con un salto temporale di circa 34 anni ci ritroviamo a Padova, nell’ampio cortile antistante il Gran Teatro Geox.
Poco meno di 2.400 fans provenienti letteralmente da tutto il mondo si stanno radunano per il primo, storico, Marillion Weekend targato Italia.
2.400 persone in rappresentanza di una ventina di paesi, io stesso mi son trovato di fianco ad una ragazza giapponese, arrivata appositamente per questo evento.
Ma cos’è un Marillion Weekend?
Partiamo da lontano: avete presente quando le band (o per lo meno, quelle band che possono vantare una fan-base adeguata) si fanno sponsorizzare direttamente dai propri fan, con quella famosa pratica che è poi divenuta nota come ‘crowd-funding’? Indovinate chi l’ha inventata?
Proprio loro.
Nel 1997 i Marillion si accorgono della potenzialità della rete.
Su suggerimento di un fan americano, non potendo permettersi di affrontare un lungo tour in USA, provano a chiedere quanti fan fossero disponibili a finanziarlo: la cosa riscontra tra i fan un interesse pazzesco, ed in men che non si dica viene indetta una raccolta fondi.
Chi ha versato danaro (incluso il sottoscritto, ben consapevole che in ogni caso non avrebbe mai potuto partecipare ad alcuna data di quel tour) avrebbe ottenuto un album dal vivo, da registrarsi proprio durante i concerti di quel tour.
Ovviamente autografato.
Andate a vedervi su DISCOGS quanto vale oggi quel doppio CD (per la cronaca, si chiama “MarillionRochester” e l’originale è noto per l’errore di stampa sulla cover, che invece indica “MarillonRochester” senza la ‘i’).
È l’inizio di una nuova era.
La band scioglie i legami con l’industria del disco e si mette in proprio.
Apre il proprio studio, fonda la propria casa discografica, la Racket Records, ed inizia un nuovo percorso, libera da qualsiasi briglia imposta dal music business.
Quando devono fare un nuovo disco chiedono ai fan di comprarlo con un anno (e anche più) di anticipo. A scatola chiusa.
A loro non verrà consegnata una copia ‘normale’ ma una ‘speciale’, con una grafica più accurata, e con i nomi di tutti i partecipanti al progetto inseriti nel booklet, nello spazio dedicato ai ringraziamenti. L’ingresso nel management di Lucy Jordache costituisce latro passo fondamentale: arriva dalla EMI ed è, prima di tutto, una fan.
Finirà infatti per sposarsi con il batterista Ian Mosley. Ma soprattutto è un piccolo genio del marketing, e se i Marillion, oggi, sono quello che sono, buona parte dei meriti vanno ricondotti a lei.
Questo nuovo approccio al business, unitamente ad un percorso artistico che ha spostato lo stile della band su sonorità ben lontane da quelle del periodo fishiano, conferisce nuova autorevolezza e credibilità ad una formazione che invece di rinchiudersi in sé stessa rimuginando sugli allori di un passato che non poteva tornare, ha saputo reinventarsi mantenendo uno standard qualitativo di livello assoluto e radunando attorno a sé praticamente da zero una fan base che, in termini di fedeltà, lealtà ed abnegazione trova davvero pochi riscontri nel mondo della musica (chi ha detto Pearl Jam?) e senza doversi piegare alle leggi del mercato.
In tutto questo, l’atra ideona è quella dei Marillion Weekend: eventi unici, inizialmente pochi, in cui per due o tre giorni band e pubblico si mescolano, anche letteralmente: a Port Zelande in Olanda per esempio, dove si tiene il più importante di questi eventi, la manifestazione si tiene all’interno di un ben noto compound turistico, in cui gli artisti finiscono per essere circondati dai propri fan.
Offrendo due (o tre, a seconda dei casi) concerti che in realtà possono essere visti come uno unico, ma ripartito su più serate.
Scalette sempre diverse, dedicandole ora ad uno specifico album piuttosto che ad un periodo particolare, ma in ogni caso concerti unici, non ripetibili.
Ecco, è in questo contesto che si inserisce il primo di questi Weekend organizzato in Italia, curato personalmente dalla band e dal fan club italiano, The Web Italy.
Un evento unico, come dicevo, dal concetto più strettamente assimilabile a quello di una convention di fan che non ad un concerto normale.
Due le serate previste, venerdì e sabato. Organizzazione esemplare, con diversi punti di ristoro e tanti piccoli eventi in qualche modo correlati ai Marillion, quindi ben venga il warm-up offerto dalle RanestRane, la band romana che musica in chiave prog film come “Nosferatu” piuttosto che “Odissea 2001” o “Apocalypse Now”, o il progetto solista di Riccardo Romano, già membro della band di Steve Rothery, chiamato ad aprire la prima serata.
O la simpatica sessione di Q&A con il pubblico che ha anticipato il concerto del sabato sera.
Insomma, una kermesse che per chiunque abbia un minimo a cuore i Marillion non può assolutamente essere trascurata.
E non parliamo solo di musica, che alla fine della fiera risulta elemento importante sì, ma non fondamentale. Ciò che veramente colpisce è la strettissima relazione che si instaurata tra la band ed il proprio pubblico, e tra i fan stessi: non voglio dire che a questi week-end si vedano sempre le solite persone, ma basta uno sguardo per capire che dietro al banale concetto di ‘seguire una band’ ci sta un mondo di relazioni interpersonali per la quale la band non è l’elemento scatenante, è l’elemento catalizzante.
Voi mi direte che tutto ciò è molto bello…ma la musica?
Ovviamente c’è anche quella.
Partendo dal presupposto che per buona parte dei fan qualsiasi cosa la band avesse deciso di presentare sarebbe stata accolta con una standing ovation (e attenzione, non lo dico con una connotazione negativa: il repertorio della band è talmente vasto e qualitativo che sarebbe davvero difficile mettere insieme uno show meno che eccellente), ciò che è stato proposto nell’ambito dell’evento non è in qualsiasi modo assimilabile al concetto di ‘due date dei Marillion’.
Si tratta di un evento unico, di un concerto unico, solo ripartito su due serate, per un totale di oltre quattro ore e mezza di musica, che vedono come fulcro della manifestazione l’ultimo parto marillioniamo, quel “One Hour Before It’s Dark” uscito nel mese di marzo dello scorso anno, ed ovviamente proposto in tutta la sua globalità.
Ognuno ha i suoi pezzi preferiti, per il sottoscritto gli highlights sono stati sicuramente ‘The Crow And The Nightingale e ‘Care’, seguite d un’incollatura dalla monumentale ‘Sierra Leone’.
La band si è presentata sul palco in forma smagliante: la consolidata sezione ritmica Mosley/Trewavas risulta impeccabile come sempre, Mark Kelly fa sempre il suo, ma quando deve salire in cattedra, non ce n’è per nessuno, tipo per esempio nello spettacolare assolo di tastiere in ‘This Strange Engine’.
A Steven Rothery cosa vuoi dirgli?
Se lo hanno soprannominato ‘God’, un motivo ci sarà, e lo potete intuire non appena tocca le corde della sua chitarra.
E Steve Hogarth?
Tutti ricordano i Marillion con Fish, ma Fish nei Marillion c’è stato tra l’80 e l’88, Hogarth è da 34 anni che fronteggia la band… ma qualcuno lo chiama ancora ‘il nuovo cantante’.
Dressing sense a parte (per favore regalategli un consulente di moda), sul palco di Padova si è presentato uno Steve Hogarth assolutamente galvanizzato e focalizzato, che si è reso protagonista di una performance ritenuta dai fan tra le migliori mai offerte. Io non sarei così assolutista, ma trovatelo voi uno che a 64 anni canta a quel modo e regge il palco come se non ci fosse un domani.
Poi il modo di cantare può piacere o non piacere, ma quando la qualità della performance raggiunge questi livelli, la critica diventa solo fine a sé stessa.
Comunque, nell’ambito delle due serate oltre al già citato ultimo album, hanno trovato spazio estratti dall’intera discografia marillioniana.
Da fan della vecchia guardia, pur avendo apprezzato gli show nella loro globalità, mentirei se non dicessi che il cuore ha battuto principalmente per i brani più anzianotti, con doverosa nota di merito per quelli del periodo fishiano; nella prima serata abbiamo avuto in regalo l’accoppiata ‘Warm Wet Circle’/’That Time Of The Night’ da “Clutching At Straws” ma soprattutto una ‘Garden Party’ che in altri tempi avrebbe ribaltato il teatro, ma che ancora oggi risveglia i sentimenti della Vecchia Guardia (notare le maiuscole) e istiga al pogo.
Sul finale del pezzo appare sul maxi-schermo la copertina di ‘Market Square Heroes’ (che ai tempi d’oro chiudeva i concerti dei Marillion proprio in accoppiata con ‘Garden Party‘) ed è stato piuttosto divertente vede la Vecchia Guardia osservare Mosley per vedere se avrebbe cambiato il tempo e lanciato il brano.
Purtroppo così non è stato, ma pazienza.
Nella seconda serata una ‘Sugar Mice’ praticamente cantata dal solo pubblico, con lacrime copiose che sgorgano nel finale, quando duemila e passa persone intonano «If you want my address, it’s number one at the end of the bar, where I sit with the broken angels, clutching at straws and nursing our scars».
36 anni dopo, le emozioni son sempre le stesse.
Che altro dire?
L’aspetto musicale per quanta importanza possa rivestire, assume in un evento come questo una dimensione secondaria, sopraffatto dall’armonia che si è instaurata tra la band ed i propri fan, dall’atmosfera festosa, dagli ettolitri di birra (e di spritz) che come fiumi in piena hanno irrorato le gole dei 2000 presenti e dalla consapevolezza che quando un’artista o, come in questo caso, una band cessa di essere tale e diventa ‘la colonna sonora della tua vita’, il concerto non è più un concerto ma una riunione di famiglia.
Ciononostante, è doveroso sottolineare che a giudizio di che era presente e degli stessi Marillion, questi due concerti, ed in particolar modo quello della seconda serata vanno annoverati tra le migliori performance dei la band in questi ultimi anni.
E per un gruppo che ha oramai tagliato il traguardo del 40esimo anno di carriera, tutto ciò non può essere ritenuto ‘incidentale’.
A mio nodo di vedere, quanto i Marillion sono riusciti a costruire, o meglio a ri-costruire dopo la dipartita di Fish, dovrebbe servire da lezione a tanti degli artisti in circolazione, che quando arriveranno finalmente a comprendere che per qualsiasi artista il patrimonio più importante e prezioso non sono le canzoni, ma quei fan che ti permettono di scriverle, e di andare in giro a suonarle, sarà sempre troppo tardi.