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Lucio Corsi, tra Gibson Les Paul, farfalle glam e altalene per fare il giro della morte

Stasera sono un po’ preoccupato.
Le fan base sono rimaste le stesse e sono il male della musica: non sanno comportarsi ai concerti, telefoni perennemente sollevati a riprendere il loro beniamino, canzoni urlate a squarciagola dei malcapitati che gli sono accanto, movimenti scoordinati.
Ho la sensazione che, per loro, ascoltare musica live, cantare tanti auguri a te davanti a una torta di compleanno con le candele a razzo o fare da locomotiva a un trenino di Capodanno sia la stessa cosa.
Di male in peggio se chiamano l’artista urlando il solo nome di battesimo come fosse un loro cugino tornato dalla Germania dopo venti anni. A pochi metri di distanza ho quattro o cinque esponenti di quella di Lucio Corsi – da qui la mia agitazione. Spoiler alert: a parte qualche «daje Lucio» non accadrà nulla di corrispondente alle mie catastrofiche immagini mentali.
Mi sto facendo vecchio

È che a me Lucio Corsi piace.
Tra gli artisti che gravitano nella terra di mezzo tra l’indipendente e mainstream, il suo live è uno dei pochi per i quali spenderei volentieri i soldi del biglietto.
Ma temo la trappola delle aspettative: ho visto, apprezzato, raccontato il cantautore maremmano quattro mesi fa.
Ho apprezzato e raccontato la sua esibizione allo Spring Attitude Festival a Roma.
Ma non c’è killer più spietato di attendere qualcosa prima che effettivamente accada.
L’aspettativa, che sia positiva o meno non importa, è un secchio di vernice color grigio piombo in bilico su una parete rosa. Ti salvi soltanto se non ne hai mai.
Quindi non ti salvi.

Va bene, mettiamo da parte i sofismi da bar sport e guardiamole nelle palle degli occhi queste aspettative. Ne troviamo conferma nel tradizionale e favolistico costume di scena, là, dove si incontrano una falena e l’Apemaia. Là, dove la malinconia del Clown Bianco incontra il glam rock e l’amata Gibson Les Paul, sebbene racconti di essere stato inserito nella lista nera dell’azienda di Nashville. I suoni rivelano da quale fonte musicale si è abbeverato. La prima parte è calda e aggressiva. Apre con ‘Freccia Bianca’, glam sia nell’abbigliamento che nei suoni di chitarra che occhieggiano a quel Mick Ronson, storico alter ego di Ziggy Stardust. E trovo rimandi a Bowie nel pezzo a seguire, ‘Danza Classica’ anche in assenza di capelli color carota.

Lucio Corsi

Un teenager di oggi definirebbe con sufficienza la sua musica come «quella che si fa con le chitarre» (definizione del rock realmente ascoltata da un quattordicenne). Ma vivaddio, aggiungerei. Suono scarno, essenziale, potente quando serve e aggressivo nelle parti rock. Più leggiadro nei brani dal timbro più folk. Svolazzante come le foglie di autunno nel cielo della città di Lugano come il personaggio protagonista di ‘Amico Vola Via‘, al termine della quale ci regala una chiusura alla Renato Zero.

La scaletta è ricca di brani. Supera le trenta canzoni, inclusi i cinque pezzi del medley unplugged, diversi bis non inseriti nell’elenco consegnato ai mixer, ed alcuni omaggi estemporanei a Ivan Graziani. Il cantautore abruzzese è, insieme a Flavio Giurato, una delle maggiori fonti di ispirazione per sua musica e la poetica di Lucio Corsi. Sonorità, costruzione dei pezzi, in qualche caso citazioni, come il ritornello di ‘Lugano Addio’ nell’intro di piano de ‘La Gente Che Sogna’.

Eppure, manca qualcosa. Colpa delle maledette aspettative. Manca la risonanza emotiva di quattro mesi fa.
Quel cordone ombelicale che annulla la barriera tra palco e platea. La simbiosi che crea una nuova entità attraverso la fusione delle emozioni di artista e pubblico. Perché prenda forma è necessario che accada qualcosa.
E questo qualcosa accade d’improvviso sulla coda della prima parte del live.
Durante ‘Il Lupo’, canzone dalle atmosfere combat folk, la performance riceve uno shock addizionale che ne innalza il livello di energia.

E da lì tutto va da sé. A cominciare dal medley acustico di cinque pezzi in cui resta da solo sul palco. La poesia di ‘La Lepre’, l’energia di ‘Senza Titolo’, in cui gioca liberamente e piacevolmente con la metrica del testo. In ‘Francis Delacroix’, un rock-blues acustico che ricorda il miglior Bennato, canta insieme con i fan che gli suggeriscono il testo.
È facile ritrovare sé stessi in ‘Let There Be Rocco’ un altro rock’n’roll provato alla chitarra acustica; chi negli anni non ha avuto un Rocco Giovannoni che in gita scolastica ti fregava la ragazza e poi faceva il botto impennando con la moto sull’Aurelia. Sono pezzi in fieri dei quali prova la presa sul pubblico. Chiude il set da solo spostandosi al pianoforte per momenti più confidenziali e chiudere con ‘La Ragazza Trasparente’, intima, intensa, lirica, toccante. Poi esce.

Quattro minuti e trentasei secondi sono il tempo di un cambio d’abito per ritornare più glam che mai. Pantaloni bianchi e camicia dello stesso colore, completamente aperta sul petto. Una sterzata decisa e vigorosa che lancia un inizio di seconda parte tiratissimo. Con ‘Magia Nera’ e, nomen omen, ‘Glam Party’ le pelvi del pubblico danno segnali imponenti di risveglio. ‘Dottor Jeckyll e Mister Hide’ è l’omaggio ufficiale a Ivan Graziani con chitarre a bomba, mentre ’20th Century Boy’ è l’inchino al re del glam rock, Marc Bolan e, cosa non marginale, si guadagna la pubblicazione nelle mie storie Instagram.

È qui che lo riconosco nel suono, nella qualità dell’energia. E riconosco me stesso in conseguenza dell’entrata in risonanza emotiva e dell’espansione della coscienza che diventa entità sovraindividuale. Non più affabulante e sognatrice farfalla, ma rockstar efebica, provocatoria e abile e navigata improvvisatrice. Capace di uscire dall’impasse di una batteria che si rompe e riempire il tempo necessario per la riparazione, con esecuzioni alla sola chitarra della sequenza, ‘Scappo di Casa’, ‘Monna Lisa’, ‘I Lupi’, direttamente dal repertorio che era Ivan Graziani. Basterebbe questo per mandarmi a casa con brividi a sufficienza per almeno una settimana.

Si va verso la fine con i brani che si ammorbidiscono. Ritornano suoni acustici, testimonianza di uno studio approfondito della tradizione cantautorale italiana. Canzoni che sono diventate icone del suo repertorio. ‘Astronave Giradisco’, ‘Cosa Faremo Da Grandi’ e a chiudere ‘Altalena Boy’. I bis si aprono con l’omaggio al Lucio Battisti di ‘Ho Un Anno di Più’. Vuole continuare a suonare adesso, si diverte insieme alla sua band, i musicisti con i quali suona da sempre. Non ci sono altri pezzi previsti in scaletta e allora non resta che eseguire un paio di brani per la seconda volta: ‘Danza Classica’ e ‘La Bocca Della Verità’.

La musica di Lucio Corsi intercetta le ragazze e i ragazzi di età compresa tra i venti e i trenta anni che stanno riscoprendo, la storia, la cultura, la musica delle generazioni passate. A suo modo regala una speranza di rivoluzione a chi sembrava averla definitivamente persa. Non sovvertirà l’ordine sociale ma che consentirà loro di ritrovare o costruirsi le proprie ali per spiccare il volo. Ragazze e ragazzi che si chiedono ‘Cosa Faremo Da Grandi’. Forse non lo sanno, forse vogliono sognarlo ancor prima di saperlo. O forse si costruiranno un’altalena per fare il giro della morte e volare via nell’universo. Proprio come ‘Altalena Boy’

Ciampino (RM), 26 gennaio 2024

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© Giulio Paravani

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