L’integrità di una proposta che resiste al tempo: Shellac live a Roma
Il 25 maggio presso il Blackout Rock Club di Roma è stato difficile mantenere un minimo di obiettività dovendo scrivere delle due band che forse hanno segnato di più il mio gusto e i cui dischi hanno consumato lettori cd, giradischi e mangianastri ininterrottamente da circa 15 anni a questa parte resistendo intatti perché tra quei pochi oggetti degni di essere conservati con cura quasi maniacale.
Questo sono stati per me Shellac e Uzeda, e in particolare i loro ‘At action park‘ e ‘Stella‘. Questo e molto altro.
La loro musica ha sempre toccato qualcosa della mia sensibilità: la chitarra metallica, stridente e monolitica di Albini è, nel mio immaginario, la sublimazione dello spirito di un tempo, la messa in suono di una resistenza necessaria alla deriva omologante di un’epoca, così come quella nevrotica di Agostino Tilotta rappresenta l’esplosione degli interiori possibili, il panta-rei dell’Es che trova una scappatoia al controllo dell’Io mascherandosi con rigidi schemi ritmici, che però fuggono continuamente a sé stessi.
Questa musica mi ha aperto lo spiraglio ad un’attitudine ed uno stile, quello che viene direttamente dal punk e che, a rigore, non mi consentirebbe neanche di proseguire troppo in questo elogio.
Un insegnamento che mi capita spesso di constatare come il meno ascoltato da una parte di pubblico ormai troppo avvezzo a considerare la musica alla stregua di una merce come un’altra, anche quella intrinsecamente nata da una volontà di resistenza a questa deriva.
Eppure Uzeda e Shellac sono ancora lì, a testimoniare l’integrità di quella attitudine, e di nuovo la sua giovinezza a chi vuole ascoltarla.
L’esordio è affidato agli Uzeda con ‘What i meant when i called‘ e ‘Gold‘ dall’album del 2006, ‘Stella‘, il capolavoro della band: suonano granitiche e mistiche ad un tempo, grazie alla performance potente e intima di Giovanna Cacciola.
Gli Uzeda sono la band di sempre, la tensione del loro concerto non si allenta neanche quando Agostino è costretto a sostituire una corda, ricominciando con la solita furia su ‘This heat‘, e continuando con qualche nuovo brano, che speriamo andrà ad impreziosire un nuovo disco o nuovi live come questi.
L’overture perfetta per gli Shellac di Steve, Todd e Bob, con i quali hanno già condiviso scene e produzioni, e la cui affinità risuona come la continuità di una posizione sognante e austera, quella di cui gli Shellac si fanno portavoce di nuovo, lungo un live di quasi 2 ore, in cui viene messa alla prova anche la resistenza di chi ha pogato per tutto il tempo. Lo ammetto, “Dude incredible“, il nuovo disco della band di Chicago, uscito dopo 7 anni da ‘Excellent italian greyhound‘, non mi ha entusiasmato, ma cosa importa quando gli Shellac sono capaci ancora di un live di questa intensità?
Va tutto bene quando l’integrità della loro proposta non risulta invecchiata dal tempo ed il sound del trio è capace di toccare le regioni sprezzanti dell’animo anche di una sola persona, che è forse tornata a casa con il sentimento, fosse anche solo un pò meno offuscato, che lo scarto tra musica e merce ancora resista, lì sotto, da qualche parte.