Il grande circo del folk’n’roll al Beaches Brew Festival – Marina di Ravenna (Ra)
a cura di Mark Zonda
I Neutral Milk Hotel dal vivo all’Hana-Bi di Ravenna sono diventati la materializzazione di un sogno nerd che diventa realtà, la sublimazione di una fantasia post-adolescenziale di un universo alternativo in una calda hipsteria collettiva, un insospettabile aggregatore calamitato di camicie a quadri dal momento in cui Jeff Magnum ha deciso di rimettere insieme la band e la fortunata sciabolata mediatica del terzo segreto del Primavera Sound 2013 quando il gruppo del Collettivo Elephant 6 è stato annunciato come main act del festival indie più gettonato per l’anno successivo.
Ma perché prendere un areoplano sopra il mare?
Giunto alla terza edizione del Beaches Brew, già palesando un manifesto stato di grazia come festival permanente estivo, guadagnatosi la fama di «Club imprescindibile in cui suonare in tour europeo» tra i salotti peggio frequentati della migliore intelligenzia indie d’Oltreoceano, l’Hana-Bi di Marina di Ravenna ha regalato a tutti i fan della musica indipendente l’opportunità di seguire in modo totalmente gratuito una delle poche band che sono state in grado per la loro schiettezza e autenticità di entrare nei cuori di così tanti dispotici integralisti delle ultranicchie musicali per veri maniaci delle mutazioni folk-pop e dei suoi derivati.
La cosa più fica che si è respirata in questo festival?
Non aveva nulla di stupefacente, ma era in grado di strabiliare lo stesso in modo ineludibile, circondandoti come un abbraccio gigante man mano che si proseguiva all’interno della struttura.
Non solo si annusava l’aria di un vero festival, ma la sensazione di prendere istantaneamente parte ad un momento incredibilmente unico, da vivere con mille amici e un sorriso idiota stampato tutta la giornata sul viso.
I Neutral Milk Hotel sono stati il vero richiamo per così tanti ragazzi da tutta Italia, e molte persone arrivate anche dall’estero. Non fatico ad immaginare come alcuni tra questi avessero già visto la band di Ruston al Primavera Festival e abbiano deciso di concedersi un bis.
È stato appunto piacevole gironzolare per la spiaggia dagli orizzonti quasi californiani («C’è qualcuno che fa il surf laggiù?» azzarderanno i Milk durante il concerto) incontrando così tanti appassionati di musica visti sporadicamente in occasioni diverse e ora aggregati come alla festa di compleanno più esclusiva del mondo, un po’ come l’episodio finale di Lost, dove tutti i personaggi si ritrovano in un meta-luogo fuori dal tempo per gioire in una giornata in cui nulla potrà più andare storto.
Era proprio una galvanizzante ed euforica solidarietà post-hippie quella che si respirava tra salsedine e profumo di hamburger: molti appassionati si sono prestati a collaborare con staff ed entourage della band per prestare servizio alla mensa, aiutare tecnici e musicisti, picchettare il banchetto dei musicisti, che per qualche insano motivo ho tralasciato di studiare minuziosamente. Per una volta che avrei trovato magliette veramente fiche, magari l’iconica shirt gialla di Paragon Park indossata dal bassista Julian Koster (si narra) durante tutto il tour.
Il festival parte subito con le sorprese.
In modo del tutto estemporaneo Scott Spillane, leader storico dei The Gerblis, principalmente dedito ad ogni tipo di strumento trombonoide per i Neutral e probabilmente sospettabilissimo aiutante di Babbo Natale nel tempo libero, si concede un live show acustico solista sotto la gloriosa tettoia dell’Hana-Bi, possibilmente impossessato dagli stessi spiriti guida di Steve Vai e Kurt Cobain.
La vera chicca nella chicca di un inimmaginabile matrioska-inception di nicchia nella nicchia, Scott chiama sul palco Stefano Vespa dei The Clever Square, band di Ravenna con cui ho stretto amicizia proprio per il fatto che quando ci siamo conosciuti eravamo tra la manciata di esseri viventi in Italia che ascoltavano con dedizione tutte le produzioni del collettivo Elephant 6.
Stefano è cresciuto da allora, fino a sembrare quasi la controfigura di Julian Koster.
Proprio per questi trascorsi personali ho avvertito quel momento come una parentesi molto speciale della giornata. Non a tutti capita di continuare a fare musica fino a ritrovarsi su un palco a suonare con il proprio idolo. Il suo compagno di band, Giacomo, ha commentato emozionato «Hai visto? Capita anche questo…».
Il grande circo del folk’n’roll prosegue con le bizzarrie auto-psicadeliche del bizzarro Miles Cooper della fanta-band Akron Family. Solo in mezzo ad un mare di loop effettati, Miles ha esplorato ogni tipo di soluzione digeribile che un essere umano possa essere in grado di proporre con due braccia, una voce, una chitarra e un centinaio si spettatori in brache corte o jeans attillati, attraversando come un unicorno barbuto tutto l’iride dell’arcobaleno del pop non tralasciando ogni sua sfaccettatura, dalla ballata struggente al rap messianico passando per l’assolo ricorsivo con arpeggi e rumorini di fondo che risolve il problema di riempire lo spazio di tre canzoni in una senza il bisogno di dargli un titolo, gettando in subbuglio tutti gli intossicati da Shazam.
Accantonato il punk-noise in qualche metallica scatoletta Electro-Harmonix, perso in uno sproloquio sull’erronea concezione di un’impossibile promisquità fra due cieli che in realtà sono uno… ma non lo sono (!!!) e l’urgenza di sentirsi veramente “occheeei” ogni momento perché il tempo non torna certo indietro, Agente Cooper divide l’audience in due fazioni stereofoniche per orchestrare un coretto beatlesiano a supporto del suo ultimo numero (ha evidentemente saltato qualche concerto degli MC5, poco male).
Damien Jurado ha avuto l’ingrato compito di coprire quel lasso di tempo che separava lo show di Miles Cooper sotto la tettoia dal grande evento della serata: il concerto dei Neutral Milk Hotel, per il quale era stato allestito un palco di cinemascopica profondità direttamente di fronte al mare, sull’altro lato della spiaggia, oltre le dune.
Damien ha riproposto i brani del suo repertorio acustico con la semplice intima onestà, non priva di classe, che contraddistingue il microcosmo indie-folk che lo caratterizza, calamitando attenzione e affetto di un pubblico di fedelissimi che non ha rinunciato a seguire il suo show fino all’ultimo minuto.
Nel frattempo sul palco principale si stava preparando l’apocalisse.
Deve essere una specie di moda o perverso gioco del caso, ma sto facendo filotto con i live report di artisti che decidono di non fare scattare foto durante il loro show.
Tra i dictact categorici di Jeff Mangum, leader dei NMH, quello di non fumare sigarette (di nessun tipo) e non obbligarlo a sorbirsi la vista di gente pogare sotto al palco (i giovani tarantinati di oggi si spintonerebbero ossessivamente anche ad un concerto di Trevor Jones).
«Sì, ciao! Come fa ad impedire che io scatti una foto». Molto semplice: con i raggi laser. Se la tua vista sopravvive ti viene lanciato addosso un buttafuori.
Trombe e tromboni, strumenti anomali, tastiere vintage, fisarmoniche, chitarre, seghe di diverse misure pronte a flettersi sotto gli archetti come una versione povera per taglialegna dei theremin: tutto era pronto per quello che alcuni appassionati hanno battezzato «il concerto indie del decennio».
«Ma che genere di musica fanno? Heavy Metal?»
«No. Ma secondo me spingono»
L’aneddoto sui due ragazzi della security raccontato dall’organizzatore di D.N.A. Concerti Fabio De Marco non si discosta molto dal vero. Dagli album neanche io mi sarei aspettato una simile carica live dal gruppo, quasi costante per tutta la durata del concerto.
L’altra cosa che mi ha colpito è stata – pur nella sua semplicità – la concettualità stessa del live, aperto e chiuso con Jeff alla chitarra e l’arrivo/dipartita degli altri compagni di band come una parentesi nell’arco della notte, a sottolineare che nonostante i poliedrici arrangiamenti a trascinare quelle canzoni rimaneva il battito di un cuore, l’immaginazione criptica e noumenica di un ragazzo nella sua cameretta che sì è trovato nuovamente a camminare zingaro per le strade del mondo, a incontrare gente meravigliosa accomunata dalla visione e passione per lo stesso tipo di musica.
I momenti che mi hanno rapito maggiormente sono stati inevitabilmente la suite di The King Of Carrot Flowers e In the Aeroplane over the Sea, ormai privata di quell’intimo piacere di best kept secret al punto da immaginarsela usurpata a jingle pubblicitario per un life insurance.
Ebbene sì. I Neutral non sono più l’asso nella manica delle nostre migliori mixtape, e vergognosamente mi ritrovo in imbarazzo a non cantare ogni virgola dei testi di Mangum & Co. mentre una bellissima folla accompagna parola per parola ogni canzone della band, in una versione del mondo migliore dove tutti per una notte scintillano senza l’ausilo di flash e iPhones, e Ligabue si trova depredato del primato del «coro da stadio» più lungo.
Felici, sorridenti, emozionati.
Con l’unica gloriosa eccezione dei Flaming Lips penso sia stato l’unico concerto che mi ha reso impossibile riuscire a trattenere un sorriso chiometrico a 17.000 carati per tutta la durata del live.
Alla band il privilegio di cantare per un pubblico innamorato, ammirando lo spettacolo dell’esotica notte europea affacciata sul mare, ai fan la realizzazione di un sogno uscito fuori dai comodini di qualche stanzetta per diventare realtà, per Scott – che quando non è impegnato a suonare qualche tipo di strumento a fiato sgrana gli occhi come posseduto scandendo ogni parola dei testi – la visione mistica di un concerto parallelo suonato alla corte di Kubla Kahan, a Julian il ritrovamento del sacro esemplare di Winner Taco rimasto in terra straniera. Alla fine dello spettacolo abbiamo vinto tutti, e io dedico questa vittoria agli Apples in Stereo, Andrew Bujalskim, Cameron Crowe e Lester Bangs.