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Flavia Guarino

Un racconto autobiografico: Flavia Guarino live a Roma

Il Pierrot le Fou di Monti è un’oasi felice in mezzo alla frenesia degli aperitivi cool.
E’ un posto che sembra nato da una notte d’amore tra un rigattiere e il bar sotto casa, un riassunto di vizi e virtù dagli anni ’80 in poi (robot retrofuturistici, numeri di DYD, libri scolastici stropicciati, bottiglie di birra artigianale e pupazzetti dei Beatles).
La gigantografia di Casablancas ammicca sorniona alla biografia di George Best. Le poltrone di pelle rattoppate alla buona.
Insomma, un covo di hipster.
Ma questi sono molto strani, di hipster, perché tutto sono tranne che spocchiosi, finto-ricercati, finto-acculturati, finto-disponibili.
Non  fatevi ingannare dalle camicette attillate e i tatuaggi marinari  dei baristi.
Infatti, entrando già smaniano per raccontarvi della loro squadra di calcetto e dei nuovi cocktail che hanno inventato (consiglio vivamente i Tegroni, esperimento alchemico che mixa tutte le sbronze della mia vita un sunto: tequila e negroni assieme), ti chiedono quando andrai a suonare là, ti offrono patatine e olivette da osteria.
Insomma ci passeresti molto tempo, anche se non ci fosse nessuno che suona.
Ma invece c’è chi suona, e c’è quasi sempre al Pierrot le Fou.

Io ci sono stato per sentire la presentazione del primo Ep di Flavia Guarino, “Istinti primari”.
Flavia è una reporter musicale, una organizzatrice di eventi, un ufficio stampa ambulante.
Se siete di Roma sicuramente l’avrete vista a quasi la totalità dei concerti e presentazioni della capitale.
Napoletana d’origine, per quanto giovane possa essere ha una strana e folle luce negli occhi quando parla di come e cosa vuole fare “da grande”, ovvero lavorare con la musica.
In gran segreto, ha preparato un disco breve di cinque brani legati da un sottile filo rosso che lo avvicina ad una piccola fotografia: macchiette tristi e banalità vengono immortalate in struggenti e sensuali ballad, ancheggianti e ironiche alla maniera di Nada, con una voce incredibilmente pulita e gli arrangiamenti che richiamano a piene mani le citazioni del genere tex-mex e blues.
Un disco femminile, forte e sognante.
Non calca nessun luogo comune se non meramente citazionistico (gli arpeggi ed alcune metafore sono tributi involontari a tutta una serie di canzoni e produzioni in cui infilare il disco).

Il concerto si è sviluppato come una specie di racconto autobiografico di Flavia Guarino, sia musicale e prettamente narrativo: il pubblico raccolto e variegato, è composto da amici e collaboratori di numerose testate.
E c’è un tizio vestito da donna, ma di mestiere fa l’attore ed è giustificato.

‘Il quadro svedese’ è il brano con cui si apre questa storia: la metafora di come le storie di tutti i giorni sono esercizi fisici e piccole figure sgraziate appese ad una vita, il gioco di parole tra questo attrezzo ginnico e la rappresentazione pittorica.
La voce è nera, ma al contempo agevole e aperta e che svetta con acuti trascinanti, come ci si aspetta dal look a metà tra gli anni ’50 e il rock anni ’80 dell’autrice.
Regina del piccolissimo palco del locale, Flavia Guarino affascina con un’eleganza antica – cosa rara in un momento in cui donna-che-canta è spesso sinomino di fragilità o addirittura di sgualdrina.

Il secondo brano, ‘Charlotte’, è dedicata a tutte le cagnette wanna-be-qualsiasi-cosa.
Dalle  finte rivoluzionarie che spendono soldi di nascosto per comprarsi l’abito sgualcito al punto giusto per andare alla manifestazione, alla finta acculturata che ti ammorba con Carmelo Bene all’aperitivo km. zero.
Ma il punto di vista, qui, non è quello di chi si sente superiore bensì quello di chi sta in mezzo alla gente e capisce il dolore condiviso dell’apparenza.

Arriva poi il momento di una cover importante e simbolica: il paradigma della che porta dalla periferia alla grande città.
Come se Napoli fosse il New Jersey e Roma un ennesimo posto in un’America magica e piena di speranze: ‘Thunder Road’ di Bruce Springsteen.

E per percorrere la strada, prima, bisogna avere il coraggio di lasciare indietro qualcosa: Tornato a casa nasce dall’esigenza di raccontare una storia di rivalsa femminile.
Dopo anni di apprensione e magone per un fidanzato/marito poco presente, una donna si stanca di essere trattata come una persona ormai garantita e scontata.
E’ una splendida ballad molto ispirata dalla miglior produzione cantautorale di Paola Turci, arpeggiata e straziant, che nasconde una forza ed una determinazione smaccatamente femminile.

Il personaggio della canzone ‘Il Debole’, anche scelto come singolo del disco, è quello che si lamenta della propria natura di perdente. E’ un antieroe spocchioso e dedito all’autodistruzione senza poesia, all’abbandono delle cose per cui lottare.
Citando a piene mani dal beat e dalle atmosfere western, il coro del ritornello è assordante cantato da tutta la sala.
A chiudere questa carrellata, come la definisce Flavia stessa “la solita canzone sull’amore che è brutto”.Altri due momenti di altissimo livello e molto intimi, per la set list e la storia di della protagonista/narratrice del disco: una cover di Lana del Rey eseguita come una indie-folk ballad, ‘Summertime Sadness’, come a raccontare quel periodo sudato e malinconico da fuorisede aspettando di finire la sessione per poter tornare “giù”, e ‘Hurt’ dei NIN (ovviamente in versione Johnny Cash).

‘Lolita’ racconta appunto di una certa freschezza e ingenuità malcelata, di primi baci che si scambiano (nonostante oramai siamo nell’era dei social network e della ridefinizione delle priorità sentimentali) per primo amore.
Molti gli applausi, e tra qualche gag per l’emozione, qualche brindisi che lo ha interrotto
Il concerto termina e penso: “Questo è quello che si dovrebbe fare ad un release party: festeggiare.”
E’ come un battesimo, una ricorrenza.
Come a dirsi a vicenda “buona fortuna!” e ridere forte, prima che arrivino sconforto e problemi, è come lasciarsi nella bella e vaga sensazione di aver fatto un grandissimo lavoro che non è da tutti.
In un momento in cui le condizioni economiche e sociali del nostro paese sono paurosamente contraddittorie, dove fare un disco costa pochissimo e promuoverlo costa tantissimo, dove non c’è lavoro ma tutti fanno qualcosa di glamouroso…impegnarsi nel pubblicare un progetto è non solo incredibile, ma anche coraggioso.
E’ veramente una festa poterlo far sentire agli amici, ai colleghi, ai propri idoli.
Una festa adatta per presentare un disco che è una piccola prova d’autrice, elegante, timido.
E soprattutto sincero, aggettivo che ultimamente non viene mai accostato a chi sa suonare ed emozionare con oggettiva capacità invece di essere una lagna post-qualcosa con gli occhiali grossi.

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