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La geometria del disordine: Cagna Schiumante live a Roma

Non è uno spettacolo qualunque quello al quale ci apprestiamo ad assistere in pochi, troppo pochi, all’INIT un giovedì sera dall’aria indecisa, sospesa nel mezzo di una primavera che è tutta due passi avanti e cinque indietro.

Muovere i pur necessari passi avanti spetta a noi, prima sparsi ai lati della sala rettangolare, al momento di raccoglierci sotto palco quando finalmente si palesano Xabier Iriondo, Stefano Pilia e Roberto Bertacchini.
Il silenzio, oramai quasi tensione data l’attesa e lo sparuto gruppo di persone, è spezzato dall’incipit di Un uomo senza braccia, prima traccia del loro album d’esordio, che ci strattona senza preavviso e senza troppi giri in una dimensione surreale e lucidamente disperata, dove la parola nichilismo domina crudele.
I gesti meccanici di Iriondo, la tensione di tutto il suo corpo ben sottolineano che qui si sta compiendo un’impresa, si sta ingaggiando una sfida: raccattare pezzi di senso scomposti e ri-comporli.
Questi supereroi della devastazione infliggono senza pietà ai coraggiosi spettatori “ri-composizioni” disturbanti permeate, tuttavia, da un’auto-ironia che è salvezza e adulto distacco.
Ed ecco, quindi, Ciò che è importante, un’incontrovertibile sfilacciatura con una speranza di ricucitura affidata al “cantato” di Bertacchini, il virgolettato a esprimere che siamo di fronte a un avant-rock anticonvenzionale fino all’osso, una sperimentazione eroica che rifiuta ogni limitazione e ricicla scorie e spazzatura di significati, un tempo assi portanti di un uni-verso entro il quale muoversi con passi relativamente saldi.
Non mancano i richiami rock e blues affidati soprattutto alla chitarra di Stefano Pilia che, negli scambi di “assoli” (il virgolettato ritorna) con Iriondo, in È respirare e Come un cane che annusa il vento, introduce fraseggi vagheggianti un virtuosismo che sorprende in questo contesto, ma che contribuisce a surriscaldare finalmente l’atmosfera traducendosi in sorridente intesa tra i due.

Il set ripercorre le tracce dell’album fino ad arrivare a A Edoardo il monco (una sorta reprise del brano di apertura) in cui, di nuovo, le movenze geometriche e forzatamente meccaniche di Iriondo si contrappongono ai salti di Pilia forsennati e asincroni (anch’essi) in puro stile punk: solo che del punk non c’è nemmeno più l’ombra.
E non è forse un caso che a seguire arriva proprio l’ossessiva Camminando in un deserto post-punk, straniante farewell al punk, perfetto elogio funebre, che ci risucchia in un deserto di cui siamo oramai prigionieri senza nemmeno una borraccia.
Come attirati in un miraggio, dunque, ascoltiamo ipnotizzati Credi davvero, in cui il cantato si fa quasi vagito, voglia di rinascita, seguita da Che la civiltà e Ti sembrerà normale.

Nella prima di questa chiusura di set il trio ci illude preludendo a una pseudo-ballata con ammiccante arpeggio, al quale fa immediatamente da contraltare, a negare ogni speranza di quadratura del caos, una voce blaterante: non c’è tregua in questo deserto né posto per una goccia d’acqua.
Ce ne torniamo a casa con l’arsura e col dubbio che forse non basterà più un semplice bicchiere d’acqua a dissetarci, anche e soprattutto perché siamo stati spettatori di una performance impeccabilmente folle.

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