Buzzcocks live a Milano: i nostri primi quarant’anni
Un tour dal nome evocativo, “Buzzcocks 40”, sta portando una leggenda del punk come i Buzzcocks in giro per tutti i continenti (Nord America, Oceania, Europa, isole comprese) a celebrare i loro primi quarant’anni di carriera. Le date italiane in programma sono quattro, la prima è il 27 aprile al Legend Club di Milano.
Punk rock in salsa milanese in apertura, sul palco The Crooks, gruppo dalla carriera ventennale che, al primo show con una line-up rinnovata e il nuovo batterista, fa la spola tra le Isole Britanniche e la West Coast americana, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta. Prendono ispirazione dalle diverse facce del punk e mostrano di avere nelle corde soprattutto l’Inghilterra di quarant’anni fa, con un suono pulito e un tempo non troppo frenetico.
Qualche minuto per il cambio palco, e dai figli passiamo ai padri: unanimemente riconosciuti come precursori nella scena punk rock, i Buzzcocks giungono da Bolton, UK, in formazione 50/50: il fondatore Pete Shelley e la chitarra Steve Diggle hanno attraversato tutte e quattro le decadi di vita del gruppo, e da circa un decennio sono affiancati da Chris Remington al basso e Danny Farrant alla batteria.
La scena chiaramente è tutta dei grandi vecchi, Pete Shelley più statico che tira fuori tutta la voce che ha in corpo, Steve Diggle fa lo showman, giocando col pubblico, maneggiando la chitarra in maniera divertita e supportando più che dignitosamente la parte vocale. La scaletta è un po’ quella che ci si può attendere dai Buzzcocks, attingendo soprattutto dagli svariati singoli dei primi anni, con qualche sporadico salto negli ultimi dischi della band.
L’inizio è bruciante, sei pezzi in fila senza soluzione di continuità: ‘Boredom‘ ha un gran tiro, la voce acida è quella di sempre, il suono ha subito una rinfrescata ma non lascia dubbi sulla loro identità. Si arriva a ‘I don’t mind‘ col giro accattivante e una buona velocità, ma con la parte vocale calante e provata dallo strappo iniziale. Arriva la seconda voce in aiuto e si prende in carico ‘People are strange machines‘, pezzo potente ma un po’ snaturato del 2014, per poi ripartire come se niente fosse con ‘What ever happened to?‘.
Pete Shelley si gestisce ora un po’ meglio, ci si prende un altro paio di canzoni dall’esecuzione lunga e quasi da virtuosi, col suono costruito come ‘Nothing left‘, piacevole anche se un po’ fuori contesto. Ma è uno specchietto per le allodole, i Buzzcocks si stanno solo preparando al rush finale: ‘It’s not you‘, brano recente ma dal sapore retrò, un gran basso e uno stop-and-go a metà con ripartenza carica, poi ‘Love you more‘ leggera e incisiva con i suoi cori e ‘Noise annoys‘ divisa tra la voce incredibilmente punk di Shelley e la chitarra di Diggle che si mette praticamente a cantare anch’essa. Un finale di set sparato, con un buon bilanciamento di forze sul palco.
Si va in pausa, ma come cantava un punk rocker della prestigiosa scuola emiliana degli anni 2000 “il meglio deve ancora venire“. L’encore dei Buzzcocks è ovviamente attesissimo e ruffiano, coi pezzoni per far divertire i profani e far commuovere la vecchia guardia. I riflettori sono tutti nuovamente per Pete Shelley, il manifesto ‘What do I get?‘ è spintissimo, ‘Orgasm addict‘ tirata e ad alta frequenza, mentre spendere parole per ‘Ever fallen in love (with someone you shouldn’t’ve)‘, piena e acuta, è quasi inutile, basterebbe parlare di pelle d’oca. Ultimissimo pezzo ‘Harmony in my head‘, e ancora Steve Diggle torna a dominare la scena.
Esecuzione rabbiosa, rumorosa e distruttiva, e un lungo finale faccia a faccia con il pubblico.
I Buzzcocks ci salutano così, al top della forma dopo ventun pezzi serratissimi. Briosi e carichi come fossero giovani virgulti, smaliziati come artisti con quarant’anni di esperienza, ma sempre ispirati come se ne vedono pochi in giro.