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Morbidezza e suggestione: Barbie Breakout live a Berlino

Tutti  – italiani a Berlino, italiani in Italia che vorrebbero andare a vivere a Berlino e italiani in Italia che non vogliono andare a vivere a Berlino perché ritengono che imparare il tedesco sia una missione impossibile – abbiamo letto negli ultimi anni una serie interminabile di articoli contenenti “i dieci motivi per cui Berlino è il posto più cool d’Europa”, “i ventidue motivi per cui Berlino era meglio dieci anni fa quando ci è andato a vivere mio cugino” e “i 18,5 motivi per cui Berlino è sopravvalutata e non lo dico solo perché non ho il coraggio di lasciare casa di mamma e papà”.

In questa foresta di informazioni spesso non richieste può sembrare difficile fornire alla discussione un contributo sensato, ma ci proverò ugualmente, regalandovi una piccola verità su un aspetto di Berlino che non finisce quasi mai nelle cronache ufficiali degli expat “arrivati”.
Dove vale veramente la pena andare a Berlino, se amate la musica dal vivo e se – puta caso – la techno e l’elettronica non sono esattamente il vostro genere?
Non è ancora stato scritto un articolo di italiani a Berlino che non nomini il Berghain (fatalmente, nemmeno questo), eppure la percentuale degli stranieri che si trasferiscono in questa città per andare al Berghain e poi entrano effettivamente al Berghain è prossima a quella delle adolescenti che si trasferiscono a Milano per fare le modelle e finiscono effettivamente a sfilare per Armani.
A rendere le notti di questa città veramente degne di essere vissute sono gli angoli che non ti aspetti, gli eventi che non finiscono sulle guide internazionali e che non corrispondono a un genere in particolare, perché sono l’espressione di una scena vitale in continuo mutamento, che sfugge alle definizioni e si presenta in tutta la sua gloriosa imprevedibilità.

Fra le tante cose meravigliose che possono capitarvi, per esempio, c’è l’opportunità di finire, in un venerdì sera qualunque, in un piccolo locale dall’atmosfera elegantemente decadente, nel seminterrato di un grande teatro.
La prima cosa che avete imparato nella vostra vita da diligenti expat in terra tedesca è che l’insegna sulla strada la mettono solo gli sfigati.
Se vuoi entrare veramente in un locale lo devi cercare, devi chiedere informazioni a uno che lavora nel locale accanto (e che non te le darà) e alla fine, per disperazione, devi infilarti in tutte le porte, fino a quando non trovi la scala seminascosta che ti porta in un posto come l’Imperial Club.

A motivarmi nella ricerca, in questa occasione, è il fatto che la serata  – dal suggestivo nome di Souterrain Privée sia organizzata da Barbie Breakout, drag queen, performer, dj e personalità trascinante, che ha dimostrato come una bellezza prorompente possa andare di pari passo con una mente brillante e una forte coscienza politica, cucendosi la bocca in segno di protesta contro le leggi omofobe della Russia di Putin (qui trovate il video, che vi consiglio di guardare, avvertendovi che potrebbe non essere adatto agli utenti più impressionabili).
Guest star della serata è una band della quale so solo una cosa: che li ho visti una volta dal vivo e sono rimasta folgorata come non mi succedeva da molti anni, gli Eat Lipstick.

Con queste premesse mi ritrovo a iniziare un tipico weekend primaverile in una venue alquanto atipica: l’Imperial Club è un po’ cocktail bar un po’ café chantant, intimo e con un che di decadente, che fa pensare a tutto tranne che al rock.
Se vi è capitato di frequentare la scena lgbt delle principali città italiane potreste aspettarvi, viste le premesse, del cabaret con un paio di successi pop in playback: sarebbe un’aspettativa onesta e sareste completamente fuori strada.

Souterrain Privée è una serata che non ha niente a che vedere con il glamour chiassoso e pop di un gay club, ma questo non vuol dire che non sia infinitamente più glamour e non necessariamente meno chiassosa.
Le danze si aprono con la padrona di casa, che, impeccabile e sfolgorante, si esibisce in una cover di Power of Two, delle Indigo Girls e la prima cosa che mi viene in mente assistendo a questa performance è “accidenti, c’è qualcosa che NON sappia fare?”.
L’atmosfera è distesa e familiare e la voce morbida e vellutata di Barbie Breakout trasporta il pubblico in quel genere di stato emotivo che ti spinge ad abbracciare degli estranei.
O forse quello è un effetto collaterale dei free-shots di dirty Martini che il bar elargisce con sorprendente generosità, in base al principio secondo cui i superalcolici sono un diritto fondamentale dell’essere umano.

Quando siamo tutti rilassati e con gli occhi umidi, pronti a sospirare su un’altra folk ballad, si scatena l’uragano: è il momento degli Eat Lipstick.
Un piccolo riassunto delle puntate precedenti per il pubblico italiano: gli Eat Lipstick sono una band fatta apposta per sbriciolare in un unico colpo di tacco (alto) tutti i vostri preconcetti sui generi e gli stili musicali.
Il loro punk-rock, contaminato di elettronica e di un certo glam storto e malato, sfugge qualsiasi paragone e si rifiuta ostinatamente di lasciarsi incasellare in una categoria precisa.
Quando Anita Drink compare sul palco, il contrasto non potrebbe essere più accentuato: il trucco impeccabile e l’acconciatura scolpita di Barbie Breakout lasciano il posto a un look ferocemente punk ed è chiaro fin dal primo momento che lei non ammicca al pubblico, lo sbrana.
Il set acustico si compone esclusivamente dei due fondatori della band, ovvero Anita Drink e il chitarrista, The Shredder: per quanto possa sembrare incredibile, quello che esce fuori dalla semplice combinazione di voce e chitarra è a tutti gli effetti un concerto rock.

Non è da tutti riuscire a riprodurre lo stesso shock adrenalinico di un concerto elettrico in un set acustico e questo è uno dei tanti motivi per cui gli Eat Lipstick hanno la stoffa delle vere rockstar.
Il singolo Murder By Madonna, spogliato degli orpelli elettronici e della batteria, non perde un grammo della sua potenza espressiva, che prende a schiaffi l’ascoltatore inerme.


In tutta sincerità, c’è il timore fondato che l’incontenibile Anita faccia esattamente questo e, mentre consideri le tue potenziali reazioni qualora questa ferocissima anti-diva ti strappasse il cocktail di mano e te lo rovesciasse in faccia, ti rendi conto che, con ogni probabilità, glielo lasceresti fare volentieri perché ti sta regalando uno show incredibile (e anche perché, eventualmente, saresti troppo spaventato per obiettare).

I lustrini e le paillettes non sono rassicuranti e divertenti, il rossetto non è un orpello per bamboline: se mai l’espressione “dressed to kill” ha avuto un senso, è questa sera, su questo palco.

La performance si chiude con una splendida quanto inaspettata cover di Private Dancer.
Sì, avete capito bene, quella Private Dancer, quella di Tina Turner.
Che cosa c’entra Tina Turner con il punk e con le drag queen?
Ok, l’abbinamento con le drag queen è anche facile, ma il punkrock?
C’entra, perché gli Eat Lipstick si rifiutano categoricamente di lasciare intatta anche solo una regola dello showbiz e prendono un singolone pop francamente pacchiano del 1984 e lo trasportano in piena death disco, facendoti venire i brividi su un pezzo che, a sentirlo in radio, avresti cambiato canale.
Perché lo sanno fare.

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