La raffinata intensità di Bonnie “Prince” Billy
La parte più divertente di quello che faccio su Oca Nera Rock non sono i concerti visti, e non è nemmeno lo scrivere di essi. La parte più bella di quello che faccio qui su Oca Nera Rock è inventarmi le aperture dei pezzi. Anzi no, nemmeno questo; è il cercare informazioni di supporto agli incipit e scoprire cose che difficilmente avrei potuto conoscere in altri modi.
Tutto questo, oltre a rendermi quasi “ingiocabile” a Trivial Pursuit, mi aiuta parecchio nella fase che i maestri retori latini definivano di “exordium”, fondamentale nel creare la giusta relazione con gli interlocutori, catturandone l’attenzione e il loro benvolere (l’espressione “captatio benevolentiae” non è buttata lì a caso).
Prendiamo ad esempio il Kentucky; fino a ieri lo associavo al bluegrass, al pollo fritto e all’omonima catena di fast food, a Fort Knox, sede delle riserve auree dello Zio Sam e alla canzone dedicata alla sua luna, scritta da Bill Monroe e resa celebre in tutto il mondo grazie ad Elvis Presley. Oggi, invece, ho appena scoperto che dal Kentucky proviene il 90% del bourbon prodotto negli Stati Uniti; che è lo stato più a nord tra quelli a sud degli USA; che l’aeroporto della sua capitale Louisville è l’hub centrale di uno dei vettori logistici più importanti del mondo; che uno dei suoi due motti è citato quasi alla lettera (non so quanto volontariamente) nel verso finale di “Hey You” dei Pink Floyd.
Louisville ha dato anche i natali a Bonnie “Prince” Billy, al secolo Will Oldham, prolifico ed eclettico cantautore folk, che chiude stasera l’altrettanto prolifica stagione dei live di “Unplugged in Monti”. Trentuno anni di carriera tra cinema e musica, attraversati con diversi progetti, ciascuno dei quali accompagnato da diversi nomi d’arte, a voler definire una specificità identitaria e a crearsi un buon seguito di appassionati e fedelissimi in tutto il mondo.
La conferma di quanto sia nutrita la nicchia di pubblico che lo ama e lo segue è la grande affluenza al Monk, sede della sua tappa romana del tour europeo, che sta toccando in questa settimana, da nord a sud le principali città italiane, e non solo quelle. C’è chi lo attende da più di qualche decennio, c’è chi lo ha scoperto da poco ma se ne è innamorato immediatamente, c’è chi, come il sottoscritto, pur non impazzendo per il genere, è semplicemente curioso di vederlo dal vivo.
Torna a distanza di nove mesi dall’uscita di “Keeping Secrets Will Destroy You”, suo ultimo disco; lo fa imbracciando la sua chitarra classica e accompagnato sul palco da due polistrumentisti che si alternano al sax alto, al clarinetto, al flauto traverso e alla chitarra elettrica. Essenzialità e sobrietà sono due delle parole chiave. L’unica concessione all’estro sono i fiori (almeno così a me sembrano) gialli e rosa appiccicati sulla sua camicia jeans e la passata di glitter sugli zigomi, make-up condiviso con i suoi accompagnatori.
Apro una parentesi extramusicale e parlo subito della nota dolente della serata. Raramente ho visto il Monk così pieno di gente, nel giro di pochi minuti la temperatura e la percentuale di ossigeno presente nell’aria raggiungono i livelli del disagio. Il sistema di condizionamento dell’aria non è sufficiente ad assicurare la vivibilità della sala e trovo incomprensibile la scelta di tenere chiuse le porte laterali, che di solito nei concerti dei mesi più “caldi” si lasciano aperte per garantire ricambio d’aria. Soltanto intorno alla metà del concerto si provvede a spalancarle, quando mi sono già spostato in zona aeratore. Il suo rumore di fondo disturba, tuttavia, l’ascolto e rende difficile rientrare nel flusso energetico creato dalla triangolazione artista, musica, pubblico.
Ed è un rammarico, perché Bonnie Prince Billy ha molte cose da dire e sa perfettamente come dirle. Volto scarno, ballate che raccontano storie di un’America operaia, di strada. Ogni sillaba intonata arriva profonda e intensa a colpirti lì dove sei più scoperto, indifeso e sensibile, a farti male ma al tempo stesso a lenire il dolore che ti ha appena procurato. Il flauto e il clarinetto portano incanto e regalano verticalità sonora e morbidezza al filo spinato della voce.
La sensibilità artistica, il timbro vocale, l’espressività del volto, gli permettono di rendere drammatici anche i pezzi in tonalità maggiore, o di vestire con l’abito del folk anche quelli che in mano ad altri artisti suonerebbero più tradizionalmente come blues. La Fender Jazzmaster che lo accompagna è suonata senza alcun tipo di effetto, e nei pezzi in cui è presente, mi scopro a immaginare che Oldham abbia raccolto l’ideale testimone di un Kurt Cobain che avesse compiuto scelte diverse e avesse abbracciato il cantautorato.
Passa da canzoni connesse con l’energia concreta della terra, che sembrano scolpite nella corteccia di un acero rosso del Kentucky, a pezzi quasi acidi, psichedelici, sospesi, in cui la polifonia delle voci porta a migliaia di chilometri a ovest e fa vagheggiare di atmosfere west coast. In altri momenti, le melodie intrecciate di clarinetto e sax, aggiungono dinamismo e regalano colori dixieland, o un flicorno con sordina testimonia il suo debito nei confronti del jazz. È un folk lontano anni luce dal country (fortunatamente per me). Abbraccia indistintamente elementi celtici, così come l’approccio più rock dell’Eddie Vedder di “Into The Wild”. Un cantore di esplorazioni in solitudine, di viandanti solitari, di muschio, whisky, tabacco e profumi di legno stagionato. Cuore, strada, suole bucate e archetipo del “Cercatore”.
Poi la sorpresa per chi non era informato sulle scalette italiane: un omaggio all’Italia e a una delle sue voci più celebri e celebrate nel mondo. Esegue ‘L’Ultima Occasione’ di Mina, prova di classe, pulizia esecutiva, eleganza e talento. Raffinatezza e passione intensa, è questa la sua ricetta. Nonostante il caldo nessuno ha abbandonato la sala per uscir fuori, così come ognuno è rimasto per un’ora e quaranta minuti in religioso silenzio. Suona senza rete sotto Bonnie Prince Billy, suona sé stesso, e con il suo carisma cattura magneticamente emozioni ed attenzione. Lo fa senza “doping”; niente sequenze, niente effetti speciali, niente suoni creati al computer, e stravince per ko all’ottava ripresa.
Proprio come un suo concittadino a Roma nel 1960, o a Kinshasa 50 anni fa, al quale Louisville ha dedicato un museo, centro culturale e educativo, che non avevo dimenticato nell’introduzione ma che mi sono tenuto per la chiusura: si chiamava Cassius Clay, divenne poi Muhammad Alì. Nella sera in cui l’America ha raccontato le sue storie più vere, sporche e calde, la chiusura non può che essere tutta per lui.