La Prima Estate 2024 | Jane’s Addiction
Stava lì da non so quanto. Lo aveva messo in piedi Enis Togni per ospitare il suo Circo Americano. La musica vi entrò per la prima volta nel 1979, quando Renato Zero lo affittò per tre mesi e lo trasformò in Zerolandia. Per quelli come me della Generazione X, cresciuti tra anni Ottanta e Novanta, era semplicemente il “Tendastrisce” e in quegli anni ospitava spesso i tour internazionali di artisti troppo di nicchia per poter riempire il Palaeur, ma sufficientemente popolari da garantire diverse migliaia di spettatori.
Ramones, Siouxsie & The Banshees, Ultravox, Living Colour, The Alarm, The Mission, Cheb Khaled, Robert Fripp and The League of Crafty Guitarists: sono alcuni dei concerti che transitarono in quel posto mitologico. Ma nessuno di questi segnò la mia vita come quello che vi si tenne il primo aprile del 1991, quando ad esibirsi tra la Fiera di Roma e la Montagnola furono i Jane’s Addiction.
Settanta minuti di ininterrotto sabba orgiastico e sfrenato. Chi c’era sa già tutto, chi era assente difficilmente potrà immaginar. Gli basti sapere che in quarant’anni di concerti non ho mai più visto una cosa simile. Quello che nessuno di noi presenti quella sera sapeva era che i Jane’s Addiction salivano sui palchi per onorare l’ultimo contratto. La band era di fatto sciolta.
Conflitti interni, storie di donne e tradimenti, usi ed abusi avevano disintegrato la band. Organizzarono i turni di registrazione di “Ritual De Lo Habitual” in modo tale da non far incontrare mai in sala Perry Farrell, frontman e vocalist, ed Eric Avery, bassista.
In seguito, portati in tribunale dal loro ex manager, lo stesso Farrell si difese davanti al giudice dicendo «siamo una band di tossici, non sappiamo cosa facciamo».
Nell’estate 2003 i Jane’s Addiction tornano con “Strays”, nuovo lavoro, e con un nuovo tour mondiale. Manca Eric Avery, che dedicatosi allo studio dell’Astronomia. Toccarono nuovamente l’Europa nel 2015, per le celebrazioni dei venticinque anni di “Ritual De Lo Habitual”, ma con Eric Avery sempre sostituito al basso. Concerti ai quali un fan non poteva non mancare, ma spettacoli che possedevano solo il pallido ricordo di quello che un tempo fu.
Poi, una notte di sei mesi fa l’algoritmo di Zuckerberg compie l’azione migliore della sua vita, mettendo a pochi centimetri dal mio naso la lineup appena uscita della prima giornata del festival La Prima Estate, al parco Bussoladomani di Lido di Camaiore: Motta, Sleaford Mods, Dinosaur Jr e Jane’s Addiction. In formazione storica. Sei mesi dopo, cioè oggi, sono in Versilia.
Ma sono anche un po’ incazzato per colpa di un’intervista con i Dinosaur Jr saltata all’ultimo momento, per la quale, fino al giorno prima band aveva dato disponibilità e che mi ero preparato. Conoscere i propri idoli non è necessariamente una buona idea. Si dice che gli eroi hanno la caratteristica di rimpicciolirsi man mano che li si guarda più da vicino. Forse è davvero così, forse è stato meglio così.
A dire il vero sono abbastanza vicino stasera. Dopo qualche decennio, ho guadagnato la transenna, e la distanza potrebbe essere quella giusta. Sicuramente lo è per apprezzare ancora una volta la performance di Motta, chiamato ad aprire la prima giornata del festival. Ha una band collaudata, impreziosita dalla presenza eccellente di Roberta Sammarelli al basso. Canta a pochi chilometri da dove è nato, è emozionato, e conferma il buono e il bello che già avevo apprezzato qualche tempo fa. Nove brani per un’ora di concerto che si apre con ‘Anime Perse’ e si chiude con ‘Ed È Quasi Come Essere Felice’. In mezzo c’è il meglio di un artista che oggi, soprattutto nella sua dimensione live, si sta imponendo come uno dei più interessanti cantautori rock italiani.
Confermo, la distanza è quella giusta: con la band successiva mi tolgo definitivamente un dubbio. Gli Sleaford Mods non ci fanno: ci sono! E sono i più punk di tutti. Inanellano, ma il termine più appropriato sarebbe “vomitano”, una sequenza di pezzi senza pause. Al Todays, nell’agosto scorso, avevo sospeso il giudizio. Oggi sciolgo le riserve. Le basi e le coreografie di Andrew Fearn sono benzina motoneuronale. Jason Williamson, è un performer e non un semplice rapper e ha un impatto che va oltre l’ascolto. Si mostra per la quasi totalità del tempo dando il profilo al pubblico, corredando l’esibizione con stereotipie gestuali, una bottiglietta d’acqua svolgere le funzioni di una cresta. Lecca il microfono e ci tossisce dentro, simula fellatio alla fine di ogni pezzo. Nei suoi testi, in stretto dialetto di Nottingham e di difficile comprensione, c’è l’incazzatura al vetriolo delle classi operaie inglesi e il rigetto verso le ideologie e le culture di estrema destra che spesso fanno da raccoglitore del malcontento popolare. Surrealismo puro e una vocalità che ricorda sicuramente Johnny Lydon, ma in cui ritrovo addirittura il David Byrne più provocatore. E comunque non si scappa: o si amano, o si odiano.
I Dinosaur Jr si fanno annunciare da un muro di tre testate e sei amplificatori Marshall; l’altare di un tempio consacrato al fuzz. J Mascis entra con la sua Jazzmaster color lavanda e un giacchetto della tuta di una nota marca, con le tre strisce glitterate; davanti a sé una pedal board di dimensioni ciclopiche. Sulla stessa linea del palco, Murph e Lou Barlow in grande spolvero, voglia, presenza e capelli. I primi pezzi sono penalizzati da un problema tecnico; il rullante della batteria non esce dalle casse dell’impianto e provo vera sofferenza fisica. Le cose si sistemano durante ‘Garden’ che vede uno scambio di strumenti tra Mascis e Barlow.
Poi Il concerto decolla a partire da ‘Cracker’, quarta canzone in scaletta. Un muro di suono, compatto. La band che suona come un unico organismo, feeling, empatia e assoli lancinanti di J Mascis, Così come accade in ‘Mountain Man’, preannunciato come «un pezzo un po’ vecchio». Siamo nel 1985, al tempo del loro primo album e il chitarrista di Amherst sforna un solo hendrixiano e allucinato. I suoi fraseggi sono così distorti da risultare puliti e morbidi, apparentemente intricati, sembra che non ti portino da nssuna parte e poi invece scopri che li stai cantando. E mentre canti, nascosto al lato del palco Dave Navarro ascolta e se la gode.
L’urlo di Lou Barlow annuncia ‘Little Fury Things’, altro classicone, e con ‘Feel The Pain’ parte il primo pogo della serata. ‘Start Choppin’ è noise schizofrenico, mentre la chitarra nel phaser e il raddoppio vocale di Lou Barlow sulla seconda strofa di ‘Freak Scene’ sono da brividi. Sembra finita ma Mascis annuncia «We have some more for you». Spero sia quello che penso. Lo è. Inconfondibile l’attacco, la loro personale versione di ‘Just Like Heaven’, con l’effetto tremolo durante l’intro e l’urlo di Barlow prima della fine inaspettata per molti… ma non per chi, al tempo, preferiva questa versione a quella dei Cure.
Ore 22:20. Improvvisamente ho paura. Paura di assistere al funerale di un ricordo meraviglioso. I concerti del 2003 e del 2015, ancorché ben suonati, erano in parte un simulacro della band che furono. Bastano pochi secondi e so che stasera non sarà così. Un’intro a palco vuoto di cinque minuti, forse più abbondanti di percussioni tribali in crescendo di densità e intensità. Dave Navarro è l’incarnazione di Mefistofele; cappello nero con vistosa piuma rossa, spolverino nero, trucco pesante (indovinate il colore) intorno agli occhi. Più classico Perry Farrell, anche lui con un cappello nero a larghe falde, mentre Stephen Perkins ed Eric Avery sono l’immagine della semplicità e della sobrietà; maglietta e jeans per il secondo, canotta e bermuda per il primo.
L’apertura è un brano che quasi tutte le band non penserebbero mai di mettere al numero uno della loro setlist. ‘Kettle Whistle’ è suadente e seduttiva; un serpente che ti invita a danzare per poi scattare e morderti alla carotide quando la band decide di regalare un primo assaggio della potenza che lascia senza fiato per la prima mezz’ora. ‘Whores’, è l’archetipo del femminile più carnale, famelico, dominante, colorato e lascivo; pentacoli, unghie laccate, bocche carnose, rosse e vampiresche. ‘Had a Dad e ‘Ain’t No Right” ci mostrano una sezione ritmica devastante, con Eric Avery granitico, possente, e Stephen Perkins impazzito a rullare su tom e timpani a inseguire e farsi inseguire dal canto di Perry Farrell.
Nei concerti del 2003 e del 2015 mi restò in bocca il retrogusto un po’ amaro di una band sul palco per obblighi contrattuali. Questa sera invece i quattro hanno presenza e voglia di suonare e divertirsi. E nel rock and roll la sola cosa che conta. ‘Ted, Just Admit It’ è la perversione che diventa musica. Sublimazione di ogni impulso aggressivo e distruttivo attraverso il sesso più dissoluto e sfrenato. Fiori circondati da fuoco sul megascreen, la chitarra di Navarro si perde in sonorità distorte e cariche di eco durante la prima parte per poi diventare cattiva quando la combinazione ritmica di basso e batteria ti fanno esplodere il diaframma dall’interno.
Ma il maestro di cerimonie è lui, Perry Farrell. Guida le danze, prende per mano il pubblico, lo blandisce, se ne fa beffe, lo coccola, lo infuoca. Come sempre processa la voce in un multieffetti, non si può dire sia bella, a volte con qualche difficoltà di intonazione, ma è non serve e non importa: è inconfondibile e come tale perfetta. È investito dal fuoco del dionisiaco, testimone del quale è la sua inseparabile bottiglia di vino rosso che si godrà lungo tutta l’ora e mezza di concerto. Posseduto dallo spirito del dio dei baccanali, preda dell’“enthousiasmos” lancia appelli di sensibilizzazione sul tema ambientale e non solo ‘Pigs In Zen’ è un altro classico di sempre e le immagini a supporto la trasformano, almeno per me in un atto di denuncia sulla condizione degli animali negli allevamenti intensivi.
E poi io mi perdo come il Major Tom. ‘Summertime Rolls’, è un canto apollineo, un respiro in un mare verde e blu, l’attesa di un’alba su una spiaggia dopo una serata di follia. ‘Jane Says’ non tramonta mai, e dopo un’ode al vino italiano ‘Then She Did’ è rosa e fucsia. Scritta da Farrell nel ricordo della mamma, suicida quando era un bambino di quattro anni. La chitarra di Navarro si espande come tentacoli di marea viola e, intrecciata con le correnti percussive di Perkins, prepara a un finale drammatico e alla liberazione in un mantra rabbioso «She was unhappy, just as you were…». È quel dolore, la ferita da abbandono mai rimarginata, ciò che della loro musica entra in risonanza. Oltre le atmosfere magiche e oscure, oltre la sfrenatezza, oltre al vizio, alla carnalità e a ogni provocazione.
Il mare, il surf e le onde del pacifico nel suono allucinato, dilatato ed esplosivo dei soli di chitarra di ‘Ocean Size’, precede lo scatenarsi della folla durante ‘Stop!’. E poi…e poi li guardo e indovino in anticipo il brano successivo. Se ‘Ted, Just Admit It’ è il sesso come sfogo di istinti bestiali, ‘Three Days’ è il sesso come tramite per giungere a consapevolezze superiori. Apollineo e dionisiaco si fondono, si compenetrano, si completano. La dolcezza, gli spazi in cui lasciarsi accarezzare, abbandonarsi, esplorarsi e scoprirsi; e la dissoluzione, con il crescendo del pezzo, la chitarra di Navarro acida e distorta a ricordare il Gilmour di ‘Echoes’ nel “Live At Pompeii”, la danza stregonesca di Perry, le ritmiche ossessive, incalzanti che non lasciano scampo di Avery e Perkins, l’esplosione finale e poi la chiusura con l’energia che va a sfumare; ed è il tempo dei saluti
Richiamati a gran voce, ci regalano la chiusura con l’imponenza di ‘Mountain Song’, il provocatorio divertissement del pop ballabile di ‘Been Caught Stealing’ e un ritorno al passato remoto: ‘Chip Away, storica chiusura dei loro primi concerti a metà anni Ottanta, con Navarro, Avery e Perkins impegnati in un set percussivo su timpano, cassa piccola e cassa grande e Farrell a declamare un’ode a una tossica autodistruzione.
Perry Farrell, nel 1991 coniò il termine di “Generazione Alternativa”, riferito a noi che avevamo vent’anni. E per farci incontrare, dark, metallari, amanti del rap e della techno pensò a un festival che chiamò Lollapalooza. Il resto è storia. E noi di quella generazione, stasera siamo tutti qui. E ci riconosciamo. Sopravvissuti a noi stessi perché immortali.
Come i Jane’s Addiction.
Lido di Camaiore (LU), 14 giugno 2024