Kula Shaker, poca ovatta e molto rullante
Serata finale al Barezzi Festival
Al Teatro Regio di Parma ospiti i Kula Shaker
Chiamiamola pure opportunità: a poche settimane di distanza dallo svolgimento della XVI edizione del Barezzi Festival, questo supplemento prenatalizio del 15 dicembre ci consente di varcare i portoni del Teatro Regio di Parma, luogo inusuale per i frequentatori assidui di scantinati, capannoni post-industriali e circoli ameni, e trovarsi di fronte una band che non capita spesso dalle nostre parti, quei Kula Shaker sparati fuori dritti dalla Gran Bretagna degli anni Novanta.
L’ambientamento, per noi profani di questi luoghi, ci viene reso più semplice da alcuni allievi del Conservatorio di Parma che fanno da apertura col progetto Barezzi Evergreen, rivisitando con archi e fisarmonica alcuni classici della musica pop in chiave sinfonica.
Pronti a entrare in punta di piedi nel mood della serata, veniamo subito disorientati dai Kula Shaker che scaldano subito gli strumenti con sfrontatezza, senza mostrare alcun timore reverenziale per il teatro che li ospita.
Non ci mettiamo molto ad arrivare al dunque e a capire che aria tira: il piglio dei Kula Shaker è istrionico, la loro esecuzione è attenta e meticolosa ma il suono è secco e profondo, non scivola via né risulta stucchevole.
Parliamo di una band che ha una marcata connotazione psichedelica e forti influenze dalla musica tradizionale indiana, eppure il rischio di autoreferenzialità e di autoinnamoramento viene aggirato, a tutto favore dell’incisività.
Ci aspettavamo un suono avvolgente, veniamo invece percossi frontalmente dai Kula Shaker, che fanno valere la loro estrazione geografica e temporale ancor più delle loro influenze: in fondo arrivano dall’Inghilterra degli anni Novanta, rifiutare i virtuosismi eccessivi era un dogma, scivolare verso un suono barocco un pericolo da evitare, indipendentemente dalla declinazione che si intendesse dare al britpop. Qualche breve concessione ad assoli e ballate spezza e ravviva lo svolgimento, rimanendo comunque al riparo dalle possibili controindicazioni.
L’approccio dei Kula Shaker è marcatamente occidentale, e questo ci rompe un po’ le uova nel paniere: non possiamo ricorrere all’armamentario di luoghi comuni che avevamo già caricato a pallettoni, dobbiamo rinunciare a parlare di viaggi in India, meditazione, ricerca di sé, mucche sacre, treni affollati e leadership mondiale nell’ingegneria informatica. C’è poca ovatta e molto rullante sul palco, e se non fossero così eleganti e misurati li potremmo quasi definire ruvidi nella performance, per la determinazione con cui il loro suono ci arriva.
Arriva infine il momento dei pezzoni universalmente conosciuti, e questo dà modo ai Kula Shaker si slegarsi e di farsi travolgenti, richiamando addirittura il pubblico al disordine.
Vogliamo uscire da questo concerto con una morale?
Mai dare nulla per scontato, se si ha di fronte un gruppo inglese di fine Novecento, non importa se li vedi a teatro, né quali siano le loro influenze.