Kings of Convenience live a Verona: il Quiet è ancora Loud
Quattordici anni fa, anno del signore 2001, usciva “Quiet is the new loud” e i Kings of Convenience passarono da Verona per tenere un concerto all’Interzona. A quattordici anni di distanza, i Kings of Convenience sono di nuovo a Verona, questa volta al Teatro Camploy, a celebrare nel gelo norvegese di questo 25 novembre quello stesso album, divenuto nel frattempo un moderno capolavoro. Uno show dalla scaletta prefissata, con l’esecuzione integrale del disco secondo la tracklist originale, suddivisa in due parti precedute e inframmezzate da un’intervista, prendendo spunto dal libro recentemente uscito che ruota intorno alla realizzazione appunto di “Quiet is the new loud”.
L’intervista è più che altro una chiacchierata, seduti su un divano al centro della scena, i Kings of Convenience vestiti di colori autunnali colloquiano amabilmente con il giornalista e con il pubblico, Eirik Glambæk Bøe più composto e serio, Erlend Øye più sfrontato e caciarone. Parlando di progetti futuri, il duo norvegese confessa che una delle ragioni di questo tour è ricordarsi il perché sono una band, ripercorrere l’ispirazione di quei giorni per comporre qualcosa di nuovo. E quando viene il momento di eseguire il lato A del disco, l’ispirazione viene allo scoperto e risale lungo le scale del Teatro Camploy.
Si mettono in piedi al centro del palco, affiancati, il primo accordo di ‘Winning a battle, losing the war‘ è di Eirik e si rivela decisamente caloroso, come lo è il cantato, che avvolge senza strafare, nemmeno quando il brano sale. L’aria si fa accesa e mistica con ‘Toxic girl‘, alla voce di Eirik si unisce quella di Erlend e le chitarre sul finale escono decise. I ruoli dei Kings of Convenience sono assegnati, il suono caldo e la voce morbida sono di Eirik, Erlend si concede una plettrata più vigorosa per un suono più freddo, giocando a fare l’intrattenitore. Tutti i pezzi sono delle piccole gemme, ‘I don’t know what I can save you from‘ è vivace e primaverile e sa essere pure rumorosa, ‘Failure‘ suona piena quasi ci fosse un basso ad accompagnare, e le chitarre di ‘The weight of my words‘ assomigliano a uno scacciapensieri amplificato.
Nella seconda parte della chiacchierata, i Kings of Convenience raccontano il loro approccio alla composizione, lo scambio di idee e lo sviluppo di quelle buone, e tutto deve girare alla perfezione perché ricordano che un gruppo che suona con una o due sole chitarre non ha altrimenti scampo. Leggendo nei gusti del pubblico italiano, sostengono che il successo riscontrato da noi è dovuto alla percezione di una emotional music, che va a toccare le stesse corde della tradizionale musica melodica. “Succede perché non capiscono le parole”, scherza Erlend.
Il lato B riparte sulle stesse corde della prima metà, ‘Leaning against the wall‘ ha l’incedere di una musica quasi latina, le voci sono sdoppiate e l’effetto è caldo, la canzone ti gira intorno e arriva circondandoti, non in modo frontale. I Kings of Convenience si spostano poi su un suono più freddo e diretto, molto più simile a quello delle registrazioni, ‘Little kids‘ viene trascinata dal cantato portante, ‘Summer on the westhill‘ sussurra con un riverbero che sembra di appoggiare l’orecchio ad una conchiglia. Il finale è incisivo, la chitarra di Eirik Glambæk Bøe a suonare come un basso e la plettrata decisa di Erlend Øye a tenere alto il ritmo.
L’encore è un’occasione per una fugace ripassata agli altri dischi dei Kings of Convenience, ‘Homesick‘ con la sua vena malinconica ma allegrotta, ‘Misread‘ che riporta su temperature caldine, sull’onda dello snapping and clapping del pubblico orchestrato dal solito Erlend burlone. Sebbene non sia più new, il Quiet è ancora Loud, e i Kings of Convenience sanno come riempire di suoni un teatro usando giusto due chitarre e due voci, senza virtuosismi ma con un’overdose di sentimento musicale.